I piedi, in cerca delle ciabatte,
urtarono il comodino facendo cadere la bottiglia di rhum.
"Cristo! cominciamo bene".
Cercando di evitare i vetri taglienti,
mi trascinai pesantemente tra le chiazze d’alcol e gli scarafaggi affogati.
Aprii le persiane per contemplare ciò che mi riservava il solito
piatto paesaggio.
Stupito, sgranai gli occhi ancora
addormentati. La pioggia stava lavando la sensazione di sporco che, normalmente,
trasudava ad ogni angolo di strada.
Polvere, fanghiglia, putredine scivolavano
lentamente ed inesorabilmente negli scoli delle fogne.
L’aria, più leggera del solito,
era impregnata di salsedine e umidità. Attraverso i vetri incrostati,
scorgevo a malapena quel turbinio grigio scuro che si levava dal mare
ed attraversava il paese come un abbraccio rassicurante.
Dopo pochi minuti tutto si placò
ed ogni abitazione ricadde nuovamente in un’atmosfera mista di staticità
e soffocamento. Qualche porta scricchiolava e i primi individui che si
affacciavano sulle strade ancora bagnate, ma già assolate, parevano
i sopravvissuti ad un cataclisma. Camminavano cauti, curiosi di accertare
i danni, zigzagando tra le pozzanghere, uniche testimoni di quell’insolito
temporale.
Mi
girai verso Nicole. Era sdraiata sul letto, prona, semiavvolta nel lenzuolo.
Le si scorgevano le natiche rotonde e la chioma corvina sparsa sulla federa
rosa. Un piede sgusciò fuori improvvisamente, impegnato a scacciare
un moscone. Il lenzuolo scivolò di lato, scoprendo il resto del
corpo immobile, pigro, esausto. Gocce di sudore le solcavano la schiena:
dei rigagnoli scendevano dal collo, bagnavano la pelle scura e andavano
a morire in una conca proprio sopra i glutei, formando una piccola pozza.
Mi avvicinai al letto, intinsi due dita in quel liquido viscido e le accarezzai,
scendendo verso il basso, le soffici curve carnose. A quel contatto il
sedere tremò un poco e Nicole parve rinvenire dal suo torpore. Ancora
assonnata riuscì ad espellere dalla bocca impastata poche parole:
"No, ti prego… smettila... sono stanca. Chiudi le persiane, c’è
troppa luce qua dentro".
Effettivamente il sole era tornato
incandescente, alto nel cielo. L’acquazzone era già un rimpianto:
quei pochi minuti d’oscurità non erano bastati a saziare
il desiderio di refrigerio. L’afa tornava padrona degli stretti budelli,
delle piazze deserte, dei vicoli del porto, dove l’aria nelle ore più
calde del giorno diventava malsana, impregnata dell’odore del pesce e del
sudore dei pescatori. Quel tanfo acre si depositava sui muri delle case,
entrava nelle crepe, nelle fessure, nei pori, e gli abitanti, ormai abituati,
non ci facevano neanche più caso. Transitavano con passo flemmatico
tra le bancarelle del mercato, schiacciati dal cielo terso.
Raddrizzai una sigaretta, che tenevo
nella tasca posteriore dei calzoni; l’accesi e cercai di distendermi. Sentii
la nicotina scendere nelle vene, raggiungere tutti i pori del corpo. Le
dita si muovevano più velocemente, la testa si faceva più
leggera e i pensieri più fluidi. Non c’era molto da pensare: avevo
a disposizione un corpo mozzafiato con poca propensione a collaborare.
Avrei potuto prenderlo con violenza,
scavalcando la sua ritrosia, ma avevo un mio contegno e poi, senza l’approvazione
di Nicole, non sarebbe stata la stessa cosa. Diedi un’ultima rassegnata
occhiata a quelle curve, schiacciai il mozzicone contro il comodino e lo
lasciai cadere sulla moquette, accanto agli altri. Presi la giacca e sbattei
la porta della camera con tutta la mia rabbia.
Dopo pochi passi già sentivo
le gambe pesanti ed il sole che batteva sulla nuca. Girai in una strada
secondaria e mi infilai in un provvidenziale caffè. Mi sedetti ad
un tavolo nell’ombra. Una lenta ventola appesa al soffitto dava l’illusione
di poter respirare. Il cigolio delle pale tagliava un poco la soffocante
calura. Ordinai un a bottiglia di vino bianco, allungai le gambe e mi stirai.
Mentre stavo seduto, cercando di concentrarmi sul vino che scendeva nello
stomaco, si avvicinò un uomo dall’aria trasandata e si sedette vicino
a me. Emanava un fetore d’alcool e di marcio.
Inizialmente fui colto dal timore
che costui, come altri insetti da bar, si attaccasse al mio tavolo, alla
mia bottiglia, invadesse il mio spazio, già così angusto,
per vomitarmi addosso tutte le sue storie di fallimenti, dissesti, matrimoni
alla deriva, creditori indomi...
Mi si chiudevano gli occhi; mi sentivo
la camicia appiccicata alla pelle. Dannazione! Volevo soltanto rilassarmi
un po’. Cominciai ad osservarlo: si scolò tre bicchieri di whisky
in meno di dieci minuti.
Io dovevo aspettare almeno le prime
luci della sera per apprezzare gli effetti dei superalcolici, ed ora, dopo
mezza bottiglia di vino, mi rassegnai al fatto che non sarei mai riuscito
a terminare quel nettare. Capii allora che avrei potuto camminare sotto
il sole per tutto il resto del giorno, visitare tutti i bar del paese,
bere, ubriacarmi, ruttare in faccia a sconosciuti avventori, andare a caccia
di diciannovenni sulla spiaggia di St. Julien o masturbarmi selvaggiamente
sotto quel tavolo unto, ma la quiete che stavo bramando con tutte le mie
forze si trovava solo in un luogo, al numero 16 di Rue de ***.
Salii nervosamente le scale. Le chiavi
girarono nella serratura e la porta si spalancò.
"Nicole... Nicole! dove diavolo sei
?".
Avanzai nel corridoio, nella camera,
il letto vuoto, ancora sfatto, un terribile odore di chiuso, caldo, sudore,
scarafaggi...
Aprii la finestra della cucina ed
inalai una boccata d’aria; mi girai verso il frigo per prendere una bottiglia
di birra ghiacciata. Sull’anta c’era appeso un foglietto. Lo staccai e lessi:
SONO ANDATA AL MARE CON MARIE E
SUA CUGINA, TORNO PER CENA.
LA TUA MICIA
P.S.
NEL FRIGO CI SONO UN PAIO DI SANDWICHES
Tre mosche si posarono voraci sui grumi di formaggio sparpagliati sotto il tavolo.