eros e thanatos (ricordi del tonchino).
dedicato ad anaïs nin

 

La piccola cutrettola si posò sul trespolo sporgente. Sepolta nel verdazzurro del plumbago, torceva la testolina ritmicamente in cerca dei suoni e delle parole che evaporavano dal gazebo.
Sopra cuscini di morbido velluto porpora erano adagiati due corpi, tesi nell’atto della seduzione. Il riverbero del tramonto accarezzava con le sue lunghe ombre il verdeggiare ondulatorio del bosco, dietro loro.
Avevano acceso i lumi rossi, appesi alle colonne, per rischiarare un poco i lenti gesti del loro abbraccio. Dal mare, antico incensiere, provenivano i primi profumi della sera, freschi ed aromatici.
Il pavido uccello si alzò in volo, ballando con le ali spiegate; timoroso planava da un albero all’altro, cercando protezione tra i lunghi rami adunchi.

Portai il mio volto su di lei; sentii il respiro affannoso entrare nei pori del mio petto. Le scostai il lenzuolo di lato e abbassai la mano pesante sul suo ventre perlaceo. Aprì la bocca e gemette lentamente, ad occhi chiusi, senza comprendere ancora la provenienza di quel brivido che la stava svegliando.
- mi erano tornate alla mente le torride notti in Indocina, i capelli ribelli di Marianne che stiravo tra le dita e le infilavo tra le labbra quando, giocando, dischiudeva la bocca. Quegli incontri furtivi, cullati dal mio barcone, improvvisamente si sovrapposero agli ansimi del presente -

Ci eravamo trascinati in quel paese al confine del mondo, sepolti dentro il sudario delle sue vie, ormeggiati alle rive del fiume melmoso che tagliava Hanoi da NO a SE. Dimenticati da tutti e lontani da ogni desiderio di ritorno, ci eravamo esiliati, profughi dentro un battello indiano trasformato in dimora galleggiante. Ci lasciavamo vivere, aspettando che uno dei due, per troppo amore, affondasse la lama nel fianco dell’altro, per liberarlo, per liberarci definitivamente dai fantasmi del passato, per redimerci da quel peso così conturbante.
Allora ero giovane ed avrei rischiato di ferirmi se avessi prolungato oltre quel rapporto di clausura, di devastante languore, che ci lasciava per ore, appesi l’uno all’altro, scivolando nel nostro sudore, sprofondando nel torbido Song Koi.
A liberarmi da quella cella scarlatta intervenne la guerra purificatrice, che portò con sé in quell’angolo di Francia lontano migliaia di chilometri dalle
coste bretoni, i profumi della nostra dimenticata civiltà.

Eravamo seduti frontalmente, coi corpi che luccicavano specchiandosi nei nostri sguardi.
Ispezionavamo gli anfratti, i seni, le oscurità spezziate che i lumi rossi lasciavano alla nostra immaginazione.
Piccoli gesti accompagnavano la crescente tensione, finché le dita affilate ruppero quell’attesa, liberando ogni resistenza ed inibizione.  Le affondai le spalle nel cuscino, spingendola con le mani aperte.
Tenendo fissi i suoi occhi ruotai il busto di 180°. Incominciai a morsicare avidamente le labbra, la lingua sinuosa, le morbide braccia, avanzando verso i cupi capezzoli che sporgevano dentro le mie fauci. Afferrando i seni tra le dita, stringendone la sommità, proseguii il percorso tortuoso della mia lingua che umettava il ventre teso di Camille.
Superata la cavità dell’ombelico, raggiunsi finalmente la meta di quel tragitto. Ci legammo così, uniti ai rispettivi sessi, così lontani tra loro.
Premendo le carni in una morsa rovente, aspettammo l’arrivo della notte e dei suoi verdetti.

 

La trascinai sulle dune, lontano dal nostro giaciglio.
A passo sicuro avanzavamo coi piedi nudi affondati nella rena. A tratti correvamo, rincorrendoci come cani  affamati. Poi, esausti, ci lasciavamo rotolare mischiando sabbia e sudore.
Il fruscio dell’acqua salmastra si avvicinava inesorabile alle ombre della nostra lotta.
La luna disegnava sulla superficie delle onde arabeschi, metallici ricami che bagnavano le nostre gambe ed il suo sorriso. Quel sorriso che era esploso nell’intimità dell’alcova, dopo aver ricevuto i doni della passione e che ora il mare ricopriva con la sua umida lucentezza, sospingendolo lentamente nell’abisso.
Riuscii a vederle ancora una volta il folto vello, ancora una volta prima che venisse ingoiato dalle correnti.