Extracomunitario.
E’
una parola d’uso recente. Sfogliando, infatti, vari dizionari, ho scoperto che
nell’anno 1987 non era ancora riportata. Evidentemente, è comparsa in
contemporanea all’intensa ondata migratoria verso l’Italia di fine anno
‘80.
Ecco:
sono già caduta nella trappola di questa parola! Tutti sanno che sono cittadini
extracomunitari tutti coloro che non fanno parte della C.E.E., quindi, uno
Svizzero, come un Africano, come un Americano, allo stesso modo. Eppure, quando
si nomina un extracomunitario, il pensiero va subito al Maghrebino, o
all’Albanese e i dizionari, più o meno, lo confermano: “spec. riferito ai
lavoratori immigrati da paesi arretrati”. (Così
anche in francese: “hors C.E.E. - immigré du Tiers Monde”).
“Extracomunitario”
è una parola composta, dal significato forte, perentorio, che non lascia adito
a fraintendimenti, almeno lessicali. “Extra” sta per “fuori, escluso da”
e “comunitario” è riferito più che ad un insieme di persone unite da
tradizioni, relazioni, vincoli comuni, in modo da formare un organismo unico, a
quell’organizzazione di stati della stessa area geografica, basata sulla
parziale sovranità, ossia attribuzione ad Organi comuni dei poteri dei singoli
stati. D’altronde, la sigla C.E.E. mette chiaramente in risalto il fattore
economico (basta pensare che alla stipulazione del trattato, le prime barriere a
cadere sono state quelle commerciali, poi, quelle del libero spostamento delle
persone). Allora, se l’elemento caratterizzante e, di conseguenza,
discriminante, è quello economico, si spiega perché, per lo meno
nell’accezione comune, nel linguaggio parlato, possono entrare a far parte
“ad honorem” di questa “nostra comunità” i ricchi Svizzeri e
Statunitensi, mentre devono restarne fuori i poveri Africani e Albanesi.
Nell’antichità
classica non era esattamente così. In Grecia c’era il polites:
cittadino, parte di una collettività, della città stato (polis), sede di governo e il barbaros:
parola onomatopeica che stava ad indicare il balbuziente, colui che non
parlava la lingua greca. Il criterio di distinzione era, prima di tutto,
linguistico, poi, etnico (i barbari vestivano di pelli d’animale), in fine
geografico (abitavano fuori dal Peloponneso). Parallelamente a Roma troviamo il cives,
in opposizione a militaris, da cui
deriva civilis, che insieme ad humanus
era la dote tipo del romanus e l’hostes, il nemico pubblico di pari diritti. Interessante il fatto
che per i Romani lo straniero è un simile finché non si viene allo scontro,
alla guerra, in seguito alla quale diventa inferiore. La guerra si fa per non
essere oscurati e per dimostrare la propria superiorità. Il popolo, la comunità
ha bisogno della guerra per affermare la propria identità. Così, mentre i
Greci non ebbero la tendenza a “grecizzare” i barbari: si accontentavano di
confrontarsi con altri modelli, senza andare oltre, per paura di un
assorbimento, i Romani, invece, che consideravano gli stranieri inferiori, solo
con la conquista, cioè avvenuta l’assimilazione, concedevano parità di
diritti.
E’
questa una tendenza che si è trascinata per secoli, all’insegna dell’etnocentrismo:
tipico atteggiamento della tradizione occidentale, che porta ad assumere i
propri modelli culturali come unici validi e, in alcuni casi, a comportamenti
razzisti e xenofobi. Spesso la conseguenza più evidente di tale pensiero è che
il popolo cosiddetto “civile” intraprenda nei confronti di un altro popolo
una missione civilizzatrice, di presunta acculturazione, che si rivela, in realtà,
una deculturazione, poiché, in un simile contatto tra due popoli, il più
debole, inevitabilmente, è costretto a rinunciare alla propria identità. E’
successo in epoca romana come in epoca coloniale e succede, seppur velatamente,
non più grazie alla forza fisica, ma alla forza dell’etnocentrismo, ancora
oggi. Sembra che la cultura occidentale non sia del tutto in grado di
riconoscere ed assorbire con naturalezza le differenze culturali, viste come un
ostacolo alla convivenza, più che un arricchimento. Da sempre ciò che è
straniero, strano (i due vocaboli hanno la stessa radice extraneus,
cioè “esterno”) prima suscita meraviglia, stupore, ma, subito dopo,
sospetto, diffidenza. Meglio, perciò rimuoverlo, in un rassicurante
livellamento, appiattimento culturale.
Ma
torniamo al termine “extracomunitario”.
Resta fermo che lo Svizzero è chiamato Svizzero e l’Americano
Americano, che è una precisa definizione d’identità nazionale, linguistica,
culturale, diversa dalla nostra tanto quanto quella di un Francese o un Tedesco.
D’altronde all’interno della C.E.E., il vero e unico elemento di
unificazione sarà dato dalla moneta, non certo da una lingua o religione
comune. Ma, se anche l’Americano e lo Svizzero parlano una lingua diversa
dalla nostra, fanno pur sempre parte del mondo occidentale, ossia progredito, il
solo che, sembra, sia degno di essere conosciuto e riconosciuto nelle sue
differenziazioni e nei suoi particolarismi.
L’Africano
e l’Albanese sono, invece, genericamente detti extracomunitari, parola che non
dice nulla sulla loro origine ed essenza culturale, ma che li etichetta come
provenienti da paese arretrato, in via di sviluppo. Per loro, specialmente se
Africani, torna in voga il termine “barbari” in un’accezione, però, più
negativa, dispregiativa di quella dell’antica Grecia. Barbari nel senso di
popolo straniero rozzo e incivile, sgarbato. Perché il parametro di civiltà,
nel senso di sviluppo materiale, spirituale, sociale, che usiamo è sempre il
nostro, quell’occidentale, per di più sapendo poco o niente di quegli usi e
costumi che ci permettiamo di bollare, senza conoscerne il retroterra.
Se,
poi, lo Statunitense in Italia rimanda al turista, l’Africano all’immigrato.
Si dimentica quello che porta con sé dal suo paese d’origine e cioè il suo
bagaglio di cultura e tradizioni, cosa che ne fa una persona unica, ma si
considera solamente la sua condizione di emigrato, comune ai Cinesi, come ai
Rumeni. L’immigrato è un “extra”, un surplus, fuori dal previsto, di cui
non si ha bisogno, ma che ha solamente dei bisogni, che fanno concorrenza ai
nostri. Non si considera mai il suo contributo al progresso del Paese, pari a
quello di ogni cittadino italiano. Abbiamo aperto le frontiere a Francia e
Germania, per tornaconto economico, ma restiamo una società chiusa, egoista e
autoreferente, per cui ogni elemento estraneo è visto con titubanza.
L’immigrato
perde il valore dell’appartenenza etnica, cioè di raggruppamento in base a
caratteri somatici, linguistici, culturali, per lo meno ai nostri occhi, di
fronte ai quali perde persino il fascino dell’esotico. Del resto, la parola
che li definisce, così cacofonica, non ha nulla di esotico. L’esotismo,
specialmente verso il misterioso Oriente, vale solo verso l’esterno, verso i
paesi d’origine degli extracomunitari e chi ha la fortuna di abitarli ancora.
Questi, una volta che lasciano la loro patria e mettono piede in Italia, perdono
qualsiasi interesse antropologico. Eppure, nonostante si faccia di tutto per
soffocare le loro manifestazioni culturali, soprattutto religiose (basti pensare
all’ostilità della nazione culla della Chiesa Cattolica verso la creazione di
moschee in cui i musulmani possano esercitare il loro culto), anche in Italia,
costoro restano simboli concreti, viventi di una cultura “altra”. Ma, in
questo caso, tale aspetto perde ogni suggestione e assume un carattere di
minaccia alla nostra, ben precaria, stabilità sociale, perché il contatto è
forzato e permanente. Da un viaggio, dopo aver assaporato altri costumi, in
un’atmosfera particolare, si torna ai nostri, dai quali mai ci si staccherebbe
definitivamente e che si ha paura di mettere in discussione, cosa che il
confronto ravvicinato e costante con un’altra cultura indubbiamente impone.
E’ triste che sia ancora in discussione un concetto come quello di
tolleranza, dalle implicazioni negative: si tollera ciò che si accetta con
riserva. Sebbene ci siamo entrati di fatto, non siamo ancora nell’ottica di
una società multirazziale, multiculturale.
Gli
immigrati in Italia, poi, smettono di essere persona straniera per diventare un
semplice numero. Sono continuamente oggetto di studi statistici per tenere sotto
controllo le cifre della loro presenza che, poi, non sono mai univoche, variano
a seconda se fornite dalle questure o dalla Caritas. Almeno, però, questi dati,
nella loro pretesa di precisione scientifica, mettono in luce le diverse
provenienze. Gli extracomunitari, comunque, sono sempre troppi, anche se pochi
rispetto alle percentuali di un paese come la Germania. Il loro flusso va
regolato, ancora una volta, in base all’economia e cioè all’offerta di
lavoro e alle disponibilità finanziarie. Il pericolo dell’invasione
(barbarica) è sempre in agguato! La loro non è ancora sentita una presenza
normale, per questo va continuamente normalizzata con leggi e normative.
Molti
extracomunitari, date le difficili condizioni per ottenere il permesso di
soggiorno, restano clandestini, voce spesso usata per definire tutti loro,
regolari e non, e, il più delle volte, come sinonimo di delinquente. Non avere
il permesso di soggiorno non implica per forza l’essere un criminale, ma,
sicuramente, condizioni di lavoro in nero, (alle quali non sfugge anche un buon
numero di Italiani), o di lavoro precario, come la vendita per le strade.
Invece, la maggior parte delle persone, quando sentono extracomunitario, pensano
subito agli spacciatori o agli sfruttatori della prostituzione.
E’
un’opinione diffusa, purtroppo, grazie anche agli organi d’informazione, per
i quali l’extracomunitario è solo protagonista di cronaca nera. Raramente
compaiono, fatta eccezione delle riviste specializzate, articoli di costume,
dall’approccio antropologico, culturale che aiutano a conoscere un popolo, di
cui s’ignora quasi tutto, di cui la conoscenza diretta, nonostante sia a
portata di mano, è un passo difficile. Forse, lo sarebbe meno se si fosse
guidati nell’incontro da maggiori informazioni a riguardo. Invece,
l’extracomunitario fa notizia solo se autore, anche presunto, di un atto
criminale. Ancora una volta, il diverso, l’indifeso diventa capro espiatorio,
valvola di sfogo del malcontento e delle tensioni sociali del momento.
E’ il caso di smettere di usare le persone, così, come le parole in modo improprio! Usare, perciò, la definizione extracomunitario è come nascondersi dietro un paravento, è come perdere un’occasione di provare interesse, di avvicinarsi ad un mondo dai mille risvolti, da cui sarebbe più facile tenere le distanze, date le implicazioni destabilizzanti per le nostre certezze, ma che già ci appartiene, che è più comunitario di quanto crediamo.
Cinzia
Quadrati
BIBLIOGRAFIA
Dizionario
Enciclopedico Zanichelli
Dizionario
Etimologico Italiano Carlo Battisti - Giovanni Alessio
Dizionario
Etimologico della Lingua Italiana Cortellazzo - Zolli
Gran
Dizionario della Lingua Italiana Uthet
Vocabolario
della Lingua Italiana Zingarelli
Il
Nuovo Dizionario Garzanti di Francese
Il
nuovo Dizionario Garzanti di Inglese
Enciclopedia
Garzanti del Diritto
Disegno
di legge n.39 del 28 febbraio 1990
Disegno
di legge n.2898 del 21 novembre 1997
Essere
stranieri a Pavia - Pavia Caritas
Pagine Web Alta Vista su “cittadini e immigrati extracomunitari”