La svendita dell'underground Intervista a Rafel Vives (regista della Fura dels Baus)
Qual è l’estetica che caratterizza la Fura, e si è evoluta in questi anni?
La Fura sta continuamente cambiando, per lo stile e i materiali con i quali lavora. Siamo passati da una fase industriale ad una tribale, poi abbiamo giocato con la tecnologia e in questo spettacolo, Manes, abbiamo fatto un ritorno alla parte più viscerale, più tribale, coscientemente, con voglia di farlo. Noi non esplichiamo concetti, noi pratichiamo le storie: fusione dell’uomo con la macchina, non solo cyborg, ma anche storie di ogni giorno. Con questo spettacolo parliamo della bio-diversità culturale, nella quale sta immerso il mondo in questo momento, grazie ai media e alla maggiore conoscenza di quanto accade nel mondo.
In Manes abbiamo preso sette attori di diversi paesi e ognuno usa il suo linguaggio materno. Noi pratichiamo le storie, non facciamo teatro. I personaggi dei nostri spettacoli derivano direttamente dagli attori, dalle persone. Se tu fai Shakespeare, Macbeth prenderà un 10% di te, dell’attore, ma qua è il contrario: un 80% di te, del tuo corpo, e un 20 % di recitato.
Noi non abbiamo la paranoia di cercare attori che provengano da scuole di teatro, ma cerchiamo gente con una personalità speciale, con una forza così naturale che sfida il pubblico a guardarli.
Come fate a trovarli?
Prima facevamo casting. Ma due anni fa la Fura ha cominciato a fare dei workshops, dei corsi di teatro "stile-Fura", e lo abbiamo fatto in tutto il mondo. In ogni corso vengono 30 persone, tu lavori 20 giorni e fai uno spettacolo finale. Dopo due anni hai un archivio di gente che hai visto lavorare per 20 giorni… che è diverso da fare un semplice casting. Le nostre tournée sono più simili ad un concerto rock che propriamente a quelle di teatro: per gli individui che siamo, per il tipo di teatro che facciamo e per il tipo di energia-forza che impieghiamo.
Dopo aver concluso il workshop esiste una persona che coordina o c’è una spontaneità, la naturalezza degli attori?
Noi facciamo lavoro a tavolino, stando 2/3 mesi ognuno con la propria storia, sognando. Quando hai le prime immagini del testo dello spettacolo, le illuminazioni, il tipo di ombre, il caldo, la luce, la musica…
Questo spettacolo è stato elaborato con la musica, la scenografia, la luce e il testo allo stesso momento. È un processo duro e lento, ma finalmente arrivi a conoscere il mondo del suono, lavorando insieme e facendo incontri.
Infatti in questo spettacolo la musica è molto importante.
In questo come in tutti gli spettacoli della Fura. Non lavoriamo con una drammaturgia letteraria, lavoriamo con una drammaturgia ritmica. La musica marca il ritmo dello spettacolo, e la luce è il filo conduttore. Non abbiamo un testo per fare la trama. Per questo possiamo mettere il finale all’inizio, e l’inizio in mezzo… dipende dalle emozioni e gli ambienti e la tensione che abbiamo in ogni momento.
Con questo spettacolo tribale, avete rifiutato la tecnologia del passato?
In questo spettacolo parliamo della possibilità della comunicazione tra diverse culture, diversi paesi e paesini e la possibilità di capirsi lo stesso, e questo è la schizofrenia, il dubbio, la doppia personalità.
La scenografia è fatta in modo tale che l’uomo è sempre più grande di qualsiasi cosa; è una scenografia vicina all’arte povera: c'è anche una componente di scultura, i totem, i pali…
Avete un referente storico: futuro o passato?
Noi non pensiamo queste cose, perché queste cose ti marcano e ti fanno mostrare qualcosa di concreto. Noi usiamo tanti simboli che sono aperti a diverse interpretazioni. Anche il nome dello spettacolo, Manes, ha diversi significati nei dizionari di Latino, Greco, Spagnolo, Francese, ecc.
Uno dei bisogni della Fura è di eccitare l’immaginazione del pubblico… noi lavoriamo con un sistema di azione/reazione.
Vedendo lo spettacolo sembra di entrare in un’era post-atomica, dopo che l’era tecnologica ha distrutto la società...
Le cose di cui parliamo sono di adesso, del presente. Magari non siamo tanto ottimisti… ma sta succedendo adesso: Bosnia, Cristiani, Israeliani… chi si capisce? Dov’è l’umanità? Perché umano significa ragionare, senza massacrare la tua razza.
Lo spettacolo della Fura ha una componente autobiografica, il momento che sta vivendo il gruppo. Il gruppo ha cominciato con uno spettacolo, Actions, che è stato considerato teatro-punk. A quell’epoca avevamo le palle piene di vedere un teatro che non ci piaceva, che il teatro stava in crisi…
un giorno abbiamo detto basta, adesso facciamo uno spettacolo che fa la pura schifezza e che fa che lo stomaco della gente si gira.
Voi guardavate le altre compagnie punk di quel periodo?
No, perché siamo un po’ analfabeti. Dopo questo spettacolo, che era totalmente trasgressivo, abbiamo iniziato a fare una tournée internazionale, impossibile da pensare fino a tre mesi prima.
Parliamo di questo punto: la commercializzazione della Fura. Le sponsorizzazioni da parte della Pepsi, Audi, Mercedes...
Non è così esattamente. Non abbiamo fatto spettacoli con sponsorizzazioni di marche… abbiamo fatto delle presentazioni: la Mercedes non ha dato un soldo alla Fura. La Mercedes dice "io ho una macchina, la voglio presentare; ho visto il lavoro che avete fatto per la Pepsi e l’Audi, e voglio che facciate una cosa così. Ma perché sia ancora più spettacolare vi do più soldi". Noi siamo totalmente spudorati.
Ma voi sfruttate o vi appoggiate a queste possibilità?
Prima l’Europa aveva una politica culturale di appoggio al teatro… perché il teatro non è un negozio, non è un concerto pop che può attirare 75.000 persone… io posso mangiare panini ogni giorno, ma…
Voi quindi sottostate a questo tipo di leggi di mercato?
Sì perché siamo negli anni Novanta. Per me è una buona ragione perché in questo spettacolo per la Mercedes abbiamo potuto sperimentare un tipo di storie meccaniche, tecnologiche, elettroniche, che altrimenti non avremmo potuto provare, perché o lo compri o non lo compri… e se lo compri e non ti serve…
Spesso si lega l’appoggio economico con la perdita della qualità.
È normale… io capisco se c’è qualcuno che mi dice "sei un venduto!". Ma lo siamo stati sempre, per l’uno o per l’altro, sempre. Per quanto riguarda la qualità è il contrario. Perché la Mercedes non può venire e dire "tu non fare questo, non fare quello… non puoi tirare la merda sui corpi". Allora che faccio? Ti leggo una poesia? Allora prendi un altro, non la Fura.
La Mercedes è venuta e ci ha mostrato un tendone costruito da un famoso architetto tedesco e ha detto "qua vogliamo fare una storia…" abbiamo lavorato su concetti di trasformazione e abbiamo fatto uno spettacolo.
E invece per la Pepsi cosa avete fatto?
Abbiamo fatto una cosa che era in progetto da anni, ma che non potevamo realizzare per mancanza di soldi: una marionetta alta 25 metri, di ferro, mossa da gru con molti effetti speciali.
Dopo è venuta la storia dell’Audi a Venezia e poi la Mercedes. Questo permette di fare anche sperimentazione per il nostro spettacolo e dopo avere una tranquillità per poter lavorare anche al nostro spettacolo, senza mischiare le storie.
In passato vi consideravate un teatro underground, più nascosto...
Era la realtà che vivevamo. Nella Fura tutti siamo diversi, di diversi colori politici; per questo non siamo un gruppo che si definisce. L’unica rivoluzione, l’unica cosa certa è quando lavoriamo; è per questo che stiamo insieme, non perché siamo fratelli.
Visto che non c’è una gerarchia come fate ad impostare il lavoro e a prendere le decisioni?
Si lavora prima a tavolino ad un’idea originale portata da uno di noi. Si discute e quando c’è una linea dello spettacolo più o meno chiara si prendono 1, 2 o 3 persone, a seconda della grandezza dello spettacolo, e queste persone lo mettono in pratica, sempre con una supervisione.
A volte però ci sono troppe idee. Per questo spettacolo siamo arrivati al copione, e in due giorni l’hanno distrutto completamente… bello! Ma cazzo se lo hai fatto tu! Abbiamo discusso, a volte litigato, si è cambiato tutto. Dopo siamo arrivati ad un punto di consenso.
Io ad esempio ero contrario allo spettacolo per le olimpiadi di Barcellona… Ma abbiamo votato, non per alzata di mano, ma gridando; e alla fine è stata una cosa buona per noi farlo, perché in 10 minuti ci ha visto più gente che in 10 anni di tournée. E questo ti permette di arrivare ad un altro tipo di pubblico, che prima poteva essere contrario. Ora viene gente di 60 anni a ringraziarci per avergli movimentato una vita super regolare, "grazie… guarda che culo che ha quella ragazza!".
Il pubblico però, leggendo del vostro spettacolo sui giornali, arriva già preparato. Nel vostro modo di "recitare" non è importante la sorpresa?
Per noi è importante la sorpresa, ma anche che la gente sappia come lavoriamo. Non lasciare immaginare alla gente cosa succederà dopo.
Una cosa che succede spesso è che i critici non fanno una critica dello spettacolo, ma un riassunto, e questo perché sono critici di teatro e hanno paura di parlare di qualcosa che non conoscono. Se fossi il direttore di un giornale userei un critico di musica punk.
A proposito della comunicazione, ci puoi parlare del lavoro che avete fatto per la TV?
Clone è stato uno spettacolo con un nostro copione, perché avevamo voglia di provare, di giocare. Quando tu lo vedi è un telefilm, è una pellicola fatta con il linguaggio televisivo: la gente parla normalmente, ci sono anche effetti speciali. È un film ambientato a Barcellona, nel 2500, con una popolazione totalmente islamica – piena di marocchini. Tutta la città è sotto il livello del mare. Ma la televisione spagnola non ce l’ha accettato perché è un po’ stranino. Proveremo con Canal+.
Abbiamo fatto anche due opere classiche, ispirate a una cantata di Manuel de Falla e al Martirio di San Sebastiano di Bach e l’anno prossimo faremo la prima di un’opera al Festival di Salisburgo.
Facciamo queste cose per il bisogno di sperimentare e per far cambiare la visione della gente.
Qual è la metafora del pollo in Manes?
In ogni scena quel pollo ha un significato diverso. Noi avremmo voluto portare un maiale, ma senza ucciderlo… non potremmo uccidere un maiale ogni sera. Abbiamo preso il pollo perché è un animale così comune, che la gente disprezza… è l’ultimo.
Noi non viviamo solo per il bisogno di fare qualcosa veramente bestiale… forte. Viviamo per tante altre cose. È anche una maniera di essere, una filosofia di vita. Io non morirei mai sul palcoscenico… vaffanculo!
Visto che il pubblico è così importante per il vostro spettacolo e ogni sera è diverso... un giudizio sul pubblico milanese.
Più a nord vai, più trovi la razionalità della gente, le reazioni sono più lente; più a sud tu vai… il contrario. Qui sono più lenti che a Firenze e più rapidi che a Zurigo.

 

interview by
federico mataloni & roberto d'alù