The Raven. Lou Reed 2003

Antonello Quarta

Digilander.iol.it/Quarta


The Raven è un buon disco, impegnativo, multiforme, molto elaborato e sentito, certamente non buttato fuori per puro rispetto di scadenze contrattuali, segnale inequivocabile di un artista che non si limita a sopravvivere (dopo una carriera quasi quarantennale), ma che vuole ancora dire implacabilmente la sua. Il concetto di fondo è poi alquanto intrigante: dipanare il filo rosso che lega Edgar Allan Poe, la sua poetica e il suo tempo al nostro tempo, così come risulta trasfigurato dalla poesia sonora e verbale di una figura anch'essa autorevole ed oscura in ugual parte come è Lou Reed.
Tuttavia un disco è un disco, non una tesi di laurea, non deve spiegare, deve coinvolgere. Fatto di musica e parole, non di musica al servizio delle parole. L'impressione che se ne ricava, invece, è quella di un ricorso a canovacci musicali, certo utilizzati in maniera impeccabile, ma destinati a fare da tappeto alle idee. E a quale canovaccio ricorrere se non a quello che si conosce meglio, vale dire il proprio, forte di un canzoniere imbattibile? Ecco allora le ballate notturne, i pezzi rock saturi di elettricità inconfondibilmente loureediani, tanto inconfondibili da strappare l'applauso per l'esecuzione, ma anche tanto riconoscibili da rendere il nostro applauso un educato battimani rigorosamente cronometrato. L'apparente varietà degli interventi e degli arrangiamenti potrebbe risultare fuorviante: abbiamo, oltre il nucleo base basso - batteria - chitarra - canto, i fiati, gli archi, cori, recitativi, spruzzate elettroniche, ma il tutto, più che innovativo, pare riassuntivo delle tante intuizioni che l'autore aveva (generosamente e incessantemente, bisogna dire) disseminato nei suoi venti e passa lavori precedenti. Così, come Lou Reed fa il Lou Reed, anche David Bowie fa il David Bowie (Hop Frog), la consorte Laurie Anderson fa (in Call on Me) la riconoscibilissima Laurie Anderson, Ornette Coleman suona come Ornette Coleman e tutti gli attori ospiti recitano (appunto) la loro parte. Ribadiamo: per adesso un buon disco senz'altro, forse il tempo lo renderà un ottimo disco o un capolavoro. Ma intanto godiamoci le zampate del vecchio leone: Burning Embers, condotta magistralmente da un cantato invelenito, Science of the Mind, come un outtake del repertorio "delicato" dei Velvet Underground, Guardian Angel, minimale nelle sue componenti (arpeggi lenti, tamburi che omaggiano il battito del cuore, cori sommessi) per meglio crescere fino a risultare maestosa. Attenti invece a The bed, uno dei vertici dell'album, voce calda e accorata, chitarre suadenti e inquiete insieme, testo encomiabilmente misurato nella sua drammaticità, tutta farina del sacco del nostro, tirata fuori però da quel Berlin già dato alle stampe trent'anni fa.
So fare Lou Reed meglio di chiunque altro.
(L.R. fine anni '70 circa)