PUNK-FUNK: l'intero è perfettamente uguale alla somma delle parti

Come consuetudine, dicembre e gennaio sono mesi di consuntivi sull'anno appena trascorso; nel settore di nostra competenza riviste e trasmissioni musicali si riempiono di playlist sul meglio e sul peggio del 2004 e anche noi diremo la nostra, senza però elencare preferenze, ma provando a fare il punto sul fenomeno musicale che ci è parso il più interessante da seguire nell'arcipelago della musica pop/rock del nuovo millennio: il cosiddetto punk-funk. Per i non addetti ai lavori, piuttosto che approntare definizioni o illustrare stilemi, preferiamo esporre una breve disamina di 2 CD esemplificativi del genere (e pressoché unanimamente ritenuti ottime opere tout court):

Louden up now (2004) dei !!!

Echoes (2003) dei Rapture

Il lavoro dei !!! si basa su pezzi piuttosto lunghi e articolati, che danno l'impressione di medley di più canzoni, tutte che filano sui binari di ritmiche molto presenti, con bassi rotondi che si intersecano con batterie che marcano tempi disco-tribali. Chitarre, tastiere e fiati punteggiano i brani con interventi compressi e sincopati, tasselli di un puzzle sonoro che compongono alla fine un quadro musicale inquietante, la cui danzabilità appare più come il precipitato di un nichilismo disperato che come effetto della gioia di vivere o della comunione spirituale a cui dovrebbe rimandare (o al limite contraffare) il rituale del ballo. Anche il registro del cantato si mantiene per lo più su toni provocatoriamente cupi e/o sarcastici. I brani in cui questo canovaccio si realizza al meglio sono le cavalcate ritmiche di "Pardon my freedom" ed "Hello? Is this thing on?", con tanto di breaks, handclaps elettronici, ottovolante di pulite chitarre elettriche, e "Shitscheissemerde", tour de force in più parti, fra sibili di voce e di synth, colpi di cassa assestati con premeditata insistenza, giri di basso che scendono in profondità.

I Rapture si mostrano più interessati al formato canzone, c'è attenzione per il groove, che però non risulta sempre prepotentemente incalzante e ossessivo, ma modellato in modo più vario e leggero, i giri armonici e i fraseggi degli strumenti seguono una logica melodica, a volte contorta e spezzettata, ma comunque rintracciabile e godibile. Da apprezzare particolarmente sono "Killing" , urgente e spigolosa grazie ad una breve linea di basso campionata che detta il ritmo a tutto il resto, "Infatuation", oscurissima , con percussioni che complottano sullo sfondo, "Love is all", splendida anomalia di enfasi vocali esaltate da un accompagnamento più fluido e meno tecnologico del resto.

Dunque due dischi molto piacevoli e intriganti di punk-funk, supponendo con tale termine (decliniamo ogni responsabilità per il conio di questa etichetta) una contaminazione fra suoni irruenti/ irriverenti e battiti volti a far muovere gambe e fianchi, un misto di intelligenza e istinto, spleen metropolitano e pulsazioni arcaiche. Niente male, vero?

Verissimo, adesso. Figuriamoci, anno più, anno meno, un quarto di secolo fa, quando manipoli di musicisti resi audaci dallo scossone che il punk aveva dato alle certezze del rock accademizzato, tentavano di abbattere barriere stilistiche, confondere le acque musicali, sperimentare miscugli e intrugli sonori. Un giorno arrivavano "Fear of Music" dei Talking Heads e "Metal box" dei PIL, quello dopo l'esordio dei Clock DVA e dei Contortions, poi si affacciavano A Certain Ratio e Palais Schaumburg, per fermarsi solo ai ricordi più affettuosi e al campo d'indagine prescelto. Per chi anelava al nuovo, all'inaspettato, agli squarci di futuro, quei dischi costituivano una rivelazione: delle potenzialità di un approccio anticonvenzionale e sincretistico ai generi musicali, e un invito: ad addentrarsi in territori sonori inesplorati. Si trattava forse di artisti marziani? Ovviamente no, anche loro avevano le proprie influenze, i propri numi tutelari, anche loro erano anelli della lunga catena rock che si dipana a ritroso dal mondo industrializzato a madre Africa, ma di questo retroterra necessario ne facevano un trampolino di lancio per la loro originale ispirazione e non - e qui veniamo alle note dolenti - una riserva naturale in cui gironzolare e da cui trarre alcuni souvenir. Perché questa è l'impressione che abbiamo avuto dall'ascolto dei Rapture e dei !!! (e dei Radio4: "Stealing of Nation" il loro ultimo album): cantato che ricalca non solo nel timbro, ma anche nelle inflessioni, Robert Smith, piuttosto che Johnny Lydon, riff di chitarra alla James Brown piuttosto che alla Clash, effettistica vintage perfettamente riesumata piuttosto che charleston in levare e campanacci della più ruspante disco-music, non sono sfiziose citazioni, ma sono esempi di ingredienti essenziali del repertorio, le parti (di cui il titolo dell'articolo) che compongono il tutto, senza che questi evidenzi un valore aggiunto rispetto alla somma delle stesse. Certo, abbiamo anche tracce della più recente technologia e l'uso di corrente electro che almeno evitano l'effetto cover band, ma anche per l'utilizzo di questi nuovi ritrovati mi sovvengono nomi in auge una decina di anni fa come Happy Mondays e Gary Clail.

Non suoni però tutto questo come una (a questo punto schizofrenica)stroncatura. Non è colpa delle nuove band se nello spazio-tempo in cui tocca loro maneggiare gli strumenti nulla o quasi nulla si crea, troppo poco si distrugge, ed è difficile che qualcosa si trasformi. Mettiamo però da parte premature aspettative rivoluzionarie o roboanti proclami, apprezziamo cum grano salis le loro uscite per quello che sono, simpatici e post moderni esercizi di stile, ineccepibili riassunti svolti con passione e buona fede, e lasciamo che i loro autori acquistino maggiore fiducia nei propri mezzi creativi, moderino l'uso del tasto cut & paste, si concentrino sulla loro personalità e magari fra qualche anno, se la fortuna ci assiste, potremo avere fra le mani un disco né punk né funk ma che, finalmente, ci meravigli.

ANTONELLO QUARTA

DIGILANDER.IOL.IT/QUARTA