MYSTIC RIVER

di Clint Eastwood

 

Alcuni ricordano il buon vecchio Clint Eastwood per il poncho e il cigarillo stretto nella dentatura grintosa, per gli occhi di ghiaccio (come il texano di una pellicola degli anni 70), per i cieli plumbei di un ispettore  politically uncorrect.

Qualche privilegiato dalla memoria cinefila  riesce ad andare oltre e potrebbe citare le grandi prove registiche del nostro eroe: il meraviglioso affresco sulla vita di “Bird” Charlie Parker o il western crepuscolare degli Spietati.

In questa pellicola, per ora forse la migliore di una stagione non  particolarmente esaltante e una delle migliori prove di cinema americano degli ultimi anni, Clint dispiega le sue migliori qualità di robusto film director.

Anarchico di destra, di quelli che i simpatizzanti post-marxisti (ma anche un po’ liberal, per l’amor del cielo!) riescono sinceramente ad ammirare per schiettezza, per rispetto dei lavoratori e delle minoranze, per il coraggio delle proprie idee, e che riesce a superare classificazioni preconcette e barriere ideologiche.

La storia che ci racconta, con piglio sicuro, ha un prologo negli anni 60 in un quartiere proletario di Boston, East Buckingham.

Tre compagni inseparabili di giochi, Jimmy, Sean e Dave, scorazzano in strada con le loro mazze da hockey.

La pallina che rotola in un tombino e i loro nomi che incidono sull’asfalto ancora fresco del marciapiede cambieranno il corso del loro destino.

Dave viene rapito da un pedofilo altolocato e riuscirà dopo qualche giorno a fuggire dai “lupi”, mentre sul marciapiede rimarranno scolpiti i nomi con il suo incompiuto.

Un salto temporale fino ai giorni nostri ed ecco un altro orrendo crimine sconvolgere il quartiere, vittima questa volta la figlia diciannovenne di Jimmy, boss di quartiere uscito dalla galera che cerca di rifarsi una vita: Sean, diventato poliziotto, si prende l’onere di risolvere il caso.

I fantasmi del passato tornano e ancora una volta le vite dei tre amici cambieranno, ma non  per tutti in peggio.

Davvero superba l’interpretazione di Sean Penn (Jimmy), che ormai non stupisce più per la sua perizia di attore sanguigno e anche Kevin Bacon (Sean) mostra di aver fatto passi da gigante nella recitazione dai tempi sbarazzini di Footloose.

Per non parlare di un quasi irriconoscibile Tim Robbins (Dave), capace di indossare sulla propria pelle tutta la sofferenza e la disperazione richieste dal ruolo.

Detto del cast straordinario, vi si devono aggiungere la solida sceneggiatura di Brian Helgeland (riadattamento dall’omonimo romanzo di Dennis Lehane) e la fotografia impeccabile di Tom Stern, a tratti persino poetica.

La regia di Eastwood è ammirevole e non lascia indifferente neanche lo spettatore più svogliato.

Insomma vietato dormire con Clint dietro la macchina da presa, con il suo sguardo da duro che riesce a regalarci momenti di straziante umanità e di sentita commozione, senza mai sconfinare nella melassa o nei clichè e senza indulgere in facili scappatoie narrative.

Un duro dall’animo gentile e dalla mente gagliarda, che svolge il suo compito senza strafare.

Forse è questo il segreto del buon cinema: saper giungere al cuore dello spettatore e delle vicende narrate, con la piena consapevolezza dei propri limiti ma anche delle proprie qualità.

Mai si vedono un movimento di macchina superfluo o uno stacco insensatamente brusco, e in più c’è rispetto per i personaggi e traspare il desiderio di denudarne le esistenze senza giudizi morali affrettati.

Non viene reinventato di sicuro il cinema, ma si dimostra come si possano narrare una storia e seguirne le evoluzioni da diversi punti di vista.

Una curiosità per concludere: Clint Eastwood è anche co-autore della colonna sonora!

 

FABRIZIO MANTICA