TUXEDO MOON: Cabin in the sky (2004)

Raggi di luna eleganti su solida materia sonora

Ascoltiamo quest'album come se i Tuxedo Moon ci fossero completamente
sconosciuti, come se la loro storia non fosse già questione di fine
'900  e storia della fine del rock, così come venne inscenata (per
esorcizzarla, beninteso) dagli avanguardisti "new wave" del tempo che
fu: cosa diremmo di questo lavoro? Potremmo ancora liquidarlo come un
altro, ennesimo  disco del combo formatosi a San Francisco nei tardi "70
e di nuovo ricostituitosi, che aggiunge poco a quanto aveva
meravigliosamente detto bene con il  capolavoro "Desire" del 1980?

E perché mai? Forse che in tutto questo tempo trascorso ci siamo
assuefatti allo stile peculiare del gruppo? E non piuttosto agli
innumerevoli stili e "scene", personaggi e tendenze che sono sorti,
hanno prodotto qualche opera significativa - ci mancherebbe altro - e
poi si sono gonfiati, hanno dilagato, ci hanno perseguitato e infine
sono andati in metastasi, o peggio sono stati già resuscitati mediante
il revival che non si nega ormai più a nessuno?

Parliamo invece di ciò che giunge alle nostre orecchie: i brani sono
vere e proprie sculture sonore, ciascun musicista  scolpisce le sue
parti in modo molto netto, modellando le diverse componenti timbriche
che si assemblano e si incastrano, senza però stratificarsi e fondersi
indistintamente, ma collocandosi giudiziosamente nei diversi angoli
dell'ambiente acustico. Negli interventi dei singoli strumenti si può
percepire quasi l'essenza fisica della musica: masse di aria che si
spostano, sollecitate e manovrate da veterani della commistione fra
geometria e gioco di prestigio, per meravigliarci ancora con nuove
varianti di vecchi trucchi.

E lo spettacolo funziona in maniera egregia, anche se ovviamente non in
tutti i numeri. Di sicuro nei pezzi iniziali:  "A Home Away" e "Baron
Brown". Nel primo basso e chitarra paiono quasi trascinare al guinzaglio
effetti elettronici e cantato, inciampando ogni tanto nelle parti
fiatistiche, mentre il secondo è condotto da un inquietante doppio
mutante dei Bad Seeds di Nick Cave, il  cui  DNA blues sia stato
ricombinato con bizzarre molecole di rock atonale.

Anche la fine ci impressiona favorevolmente, con la disarmante ma non
svenevole "Misty Blue", una ballata adagiata su un tappeto ritmico
rutilante, che si lascia coccolare da tastiere, fiati e chitarra e
conquistare da un canto  appassionato quasi fino all'enfasi, e con
"Luther Blisset", rischioso esercizio di sarcasmo musicale,
dall'andamento caparbio e con capricciose intromissioni di chitarre
rumorose e cori futuristici.

In mezzo, qualche lungaggine strumentale rende i pezzi meno memorabili,
ma il concettualmente curioso uso di field-recording in "La Più Bella",
la disco music astratta della prima parte di "Chinese Mike ", la
svagatezza vocale e l'irrequietezza strumentale (di tutti gli
strumenti!) di "Here Till X-Mas" ci confermano ancora classe,
intelligenza e doti compositive di prim'ordine negli autori di "Cabin in
the Sky". Nel 2004.

ANTONELLO QUARTA

DIGILANDER.IOL.IT/QUARTA