Capitolo 3.


LA DEGENERAZIONE DEL “FUMETTO NERO”
3.2 Il Fumetto Neofascista.
 
 

il fumetto del ventennio. 
 

Il fascismo, non appena si sostituì allo Stato liberale, si preoccupò subito dell’educazione dei "bimbi d’Italia" e del loro addottrinamento al credo mussoliniano. Costante fu la preoccupazione del fascismo di imporsi ai giovani. Lo stesso ministro della Pubblica Istruzione, Pietro Fedele, in un discorso alla Camera, il 25 marzo 1927, proclamava:

il governo, come già ebbe a dire il duce, esige che tutta la scuola, in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo, a nobilitarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla rivoluzione fascista.

Sotto l’egida del partito fascista, furono così creati nel 1923 Il Giornale del Balilla, ribattezzato nel 1926 Il Balilla, e nel 1927 La Piccola Italiana, due settimanali che però la stragrande maggioranza dei ragazzi ignorò. I personaggi delle strisce non raggiunsero mai la popolarità a causa della loro gracilità, spesso accoppiata ad una desolante goffaggine. Con sempre maggiore sforzo Il Balilla si assunse il compito di tratteggiare la figura del nuovo fanciullo italiano e di educarlo al ricordo degli eroismi passati.

Un clima eroico, irrazionalistico, esaltato e, forse per i tempi, esaltante, pervade le pagine del Balilla. Comunque già si tende a instaurare dei legami col passato della Nazione, specie quello "eroico", a cercare insomma degli aspetti di continuità storica e ad educare le nuove generazioni ad una morale ciecamente fideistica, al culto dei grandi valori metafisici della tradizione, grandi quanto incomprensibili ma adatti per abituare alla completa dedizione e al sacrificio.

Solo Il Balilla, negli anni del conflitto mondiale, riuscì ad attirare l’attenzione su di sé con le tavole di Enrico De Seta che si aprivano con la tiritera: "Per paura della guerra – Re Giorgetto d’Inghilterra – chiede aiuto e protezione – al ministro Ciurcillone". Ironia volle che le simpatie dei giovani lettori andassero al sempre tartassato Ciurcillone. Dopo che Mussolini ebbe consolidato il suo potere iniziò un lenta e costante fascistizzazione di tutta la stampa quotidiana e periodica, compresa quella dedicata alla gioventù. E così tutti i settimanali per ragazzi divennero sempre più patriottici, impegnandosi in un’esaltazione crescente dei "puri eroi italici" e in grande disprezzo per i "rossi bolscevichi" che tramavano contro la civiltà occidentale. Si ebbe così una serie nutrita di racconti a fumetti dedicati alle imprese coloniali in Africa e alla guerra di Spagna. E non mancarono le rievocazioni delle guerre romane, delle avventure medievali e rinascimentali, delle battaglie risorgimentali che rispecchiarono le ambizioni del fascismo di considerarsi il degno continuatore delle glorie del passato. Queste rievocazioni, quindi, ebbero in prevalenza finalità di propaganda nazionalista e furono utilizzate come arma psicologica per diffondere tra i giovani la supremazia spirituale e ideologica del fascismo, e la sua impossibile e presunta eredità delle secolari grandezze. Negli anni 1938-1940, sull’esempio dei film del regime, che diffondevano le immagini mitiche dei colonizzatori italiani fu intensificata la produzione dei fumetti di avventure africane. In quel periodo le intromissioni e gli abusi della censura fascista si fecero più pesanti e ridicole. Nel 1940 si arrivò perfino a far licenziare dal mite Sor Pampurio la cameriera Maria Bice, colpevolee di usare il poco virile "lei" al posto del solenne "voi". Un anno dopo, nel 1941, furono proibiti i racconti che presentavano "scene di banditismo, spionaggio, agguati, aggressioni ed ambienti loschi e azioni violente". Con l’approssimarsi della guerra, l’avversione viscerale del fascismo per ogni forma di espressione non improntata ai temi della patria, dell’eroismo e della romanità si esasperò e colpì anche l’editoria a fumetti. Mentre la propaganda del regime imponeva i suoi altisonanti slogan, cercando di penetrare nelle coscienze dell’opinione pubblica, il Minculpop proibì l’importazione e l’utilizzazione di comics stranieri. Taluni editori, con furbizia tutta italiana, aggirarono l’ostacolo, riproponendo alcuni characters americani più o meno mascherati e "italianizzati". E così, ancora una volta, i solerti censori del fascismo, assaliti da raptus xenofobo, dimostrarono tutta la loro cecità e stupidità. Bastano pochi esempi indicativi. Nel 1939, sull’Audace, il Tarzan di Burne Hogarth fu ribattezzato con il nome teutonico di Sigfrido, mentre il testo fu attribuito a un anonimo Amedeo Martini e i disegni furono firmati con lo pseudonimo apocrifo di Ulterius. Su Topolino, al biondo Brick Bradford (fin dalla sua prima apparizione italianizzato in Bruno Arceri) furono tinti di nero i capelli per dargli un aspetto tipicamente latino. In ossequio a un nazionalismo assurdo diversi eroi stranieri furono ribattezzati con ridicoli nomi italiani. Così Audax divenne il maresciallo Rossi, Jim della giungla si chiamò Geo e Mandrake fu costretto a rinunciare alla K anglosassone e a trasformarsi in Mandrache. Così ricorda quel periodo di censure Gherardo Casini, direttore generale della Stampa Italiana presso il Minculpop, dal 1934 al 1940:

…venne il momento in cui emerse la necessità di eliminare dai giornali per ragazzi tutto ciò che poteva essere contrario a certi principî, soprattutto i racconti e le figure a tinte troppo gialle, così come, in genere, tutto quello che era in contrapposizione ad una esaltazione dei tipici valori italiani: militari, intellettuali ed artistici.

Paradossalmente il primo eroe in divisa fascista aveva nazionalità inglese, Victor’s Adventure, realizzato da William Booth. Con un’incredibile operazione di revisione testuale e con la semplice modifica di alcuni tratti, la saga fu stampata in Italia con il titolo di Lucio l’avanguardista. Le imprese di questo intrepido protagonista, ridondanti di nazionalismo, convenientemente riadattate, furono pubblicate sul settimanale Jumbo a partire dal dicembre 1932. Nel 1938 esce nei cinema Luciano Serra pilota, il film in cui Amedeo Nazzari dà corpo all’idea di un eroe avventuroso di pura stirpe "romana"; e in edicola esce il primo albo di Dick Fulmine, l’unico personaggio dei fumetti che otterà un successo pari a quello dei più celebrati characters americani. Ciò accade forse perché viene creato con attenzione "a tavolino", letteralmente. Secondo la leggenda, infatti, viene concepito a un tavolo del milanese "Bar degli sportivi" dai conciliaboli degli editori Nino Della Casa e Gino Casarotti con il giornalista sportivo Vincenzo Baggioli e con il disegnatore Carlo Cossio. Dick Fulmine, "il grande poliziotto italo-americano terrore dei gangsters", come venne presentato nella copertina del primo episodio La banda del pazzo, uscì il 29 marzo 1938 sul settimanale L’Audace. Appariva come surrogato dei detectives, protagonisti di tanti comics americani, impegnati nella lotta contro il gangsterismo allora imperante nelle grandi città statunitensi. L’ambiente straniero era però reso assai male: aveva un che di paesano e provinciale e non faceva certo pensare alle metropoli o alle sconfinate praterie d’oltreoceano. Per la particolarità del volto e per la potenza fisica fu modellato sulla falsa riga del popolare "gigante di Sequals", Primo Carnera.

Trent’anni fa la statura media degli italiani era di alcuni centimetri più depressa di quanto non lo sia attualmente: per far largo nelle forze armate a re Vittorio, a suo tempo, il limite di statura minimo, necessario per poter fare il soldato, era stato ulteriormente abbassato. In fondo Dick Fulmine era la compensazione di un dato di fatto che non piaceva a nessuno, e faceva soffrire tutti, soprattutto gli sportivissimi gerarchi che compivano lunghe marce con la bicicletta in spalla e saltavano nei cerchi di fuoco.

All’inizio della sua fortunata carriera aveva una corporatura da peso massimo, indossava un maglione con il collo da ciclista, su pantaloni alla zuava e possedeva un piglio popolaresco. Col trascorrere degli anni, in seguito alla sua crescente popolarità, Carlo Cossio ebbe delle pressioni da parte del Minculpop perché facesse diventare l’eroe più bello, togliendogli anche il famoso maglione che finiva per americanizzarlo troppo. Così Cossio, nella storia La bottega del cinese del gennaio 1942, inventò un incidente automobilistico che costrinse il personaggio a una delicata operazione di plastica facciale; e l’eroe italo-americano iniziò a vestire solo una camicia, per fortuna, bianca. Più di un granello d’incenso venne bruciato sull’altare di un nazionalismo che oggi appare abbastanza ingenuo. Fulmine incontrava ebrei infidi, negri delinquenti, sudamericani cialtroni; e contro essi lottava spesso per difendere connazionali in difficoltà. Godette di una grande popolarità, grazie soprattutto al ritmo serrato e alla lineare semplicità delle sue avventure.

Fulmine era italiano modello, figlio del suo ventennio per la straordinaria capacità di risolvere conflitti e strategie attraverso un bricolage casalingo. Eliminava avversari armatissimi senza bisogno di equipaggiamenti particolari. A conflitto scoppiato, reclutato nell’esercito, fuggiva da un campo di concentramento su pattini a rotelle, in barba a truppe britanniche dal mento lunghissimo, il naso camuso, le orecchie a ventola (il nemico ti ascolta), la nuca di un dolicocefalo indicibile e l’elmetto di sghimbescio come la paglietta di un comico di music hall. Fulmine ci insegnava che l’autarchia non è uno sforzo ma un’epopea, che la tecnologia è una trappola demoplutogiudaica, che la morte la si vede con due bombe e in bocca un fior, che le pallottole altrui colpiscono al massimo di striscio. E quindi Fulmine è stato in profondo la consolazione del nostro squallore perché eleggeva lo squallore a scelta, l’improvvisazione a virtù, la povertà di mezzi a gloria; e ci lasciava credere che anche un popolo di mediterranei piccoli, baffuti, sudati, con le scarpe rotte, ma tanta fede e buona volontà, potesse conquistare il mondo.

Man mano che il clima dell’Italia fascista si faceva più pesante, le imprese dello spavaldo gigante dall’aria di bravaccio risentirono sempre più dei suggerimenti razzistici del Minculpop, esasperati talora fino al limite del grottesco. Ormai il poliziotto aveva perso molte delle sue ingenue e simpatiche smargiassate. Era divenuto un cliché, e così i suoi più acerrimi e irriducibili nemici: il negro Zambo, il bandito dall’oscuro passato Maschera Bianca, che usava una pistola a gas soporifero di sua invenzione, il rissoso e prepotente sudamericano Barreira e l’ipnotizzatore dagli eccezionali poteri Flattavion, copia rovesciata e malefica del Mandrake americano. Durante la guerra il personaggio di Cossio e Baggioli perse il Dick americano e si chiamò semplicemente Fulmine, trovandosi sempre più impegnato in lotte contro spie anglo-americane, lotte che risolveva invariabilmente a suon di pugni: dopo le campagne d’Africa e di Russia, finì in Estremo Oriente a dar man forte agli alleati giapponesi. Il pugnace Fulmine fu un personaggio "autarchico", posto al centro di imprese assurde e paradossali che finirono per stridere con la realtà dei fatti: le sue vittorie contrastarono grottescamente con le sconfitte subite dall’esercito italiano sui fronti africano e russo.