La melodia dello sfondo
Intervista ai Motus (Daniela Niccolò ed Enrico Casagrande)


Vorrei partire dagli autori che avete affrontato negli ultimi lavori, mi riferisco a Rilke e all’Ariosto: entrambi "di rottura" per il periodo storico in cui vissero; critico della società borghese di fine Ottocento il primo, e massimo esponente della Cultura della Contraddizione rinascimentale il secondo. Io affiancherei a Rilke e all’Ariosto anche Samuel Beckett che, come riferimento dal punto di vista letterario, è quasi sempre costante nei nostri spettacoli e, allo stesso tempo, James Ballard, che a suo modo è un classico contemporaneo. Tutti questi autori hanno, come dici tu, una forza dirompente e sono un briciolo più lungimiranti rispetto ai loro tempi: riescono ad analizzare il periodo storico in cui vivono e allo stesso tempo riescono a trasfigurarlo in letteratura, in poesia, con una visione aperta, con uno sguardo oltre. Non riferendoci mai ai suoi scritti poetici, siamo arrivati a Rilke partendo dal mito di Orfeo, dal desiderio di lavorare su Orfeo. E i suoi Sonetti ad Orfeo ci hanno letteralmente affascinato. Da qui è nata l’idea di porre una tappa intermedia, dedicata e legata all’Essere Angelo. La caratteristica dei nostri lavori è quella di cercare una commistione tra diversi elementi, avendo però un lume di riferimento costante, che si può identificare sia in un autore, sia in un tema artistico-letterario-filosofico. Leggendo Rilke, ad esempio, il campo si è allargato a Benjamin, Holderlin, Heidegger, Nietzsche.
Per quanto riguarda le contaminazioni che ci possono essere tra arte, poesia e teatro, esiste uno scambio di ruoli tra l’artista e l’attore? Penso ad esempio a The Solar Anus di Ron Athey o alla vostra stessa scelta di creare un’installazione piuttosto che un vero spettacolo. Il confine è estremamente labile, non è più possibile tracciare una demarcazione. È chiaro che il tempo di una performance è diverso rispetto alla percezione di uno spettacolo teatrale, e in Éntrange lo abbiamo voluto estremizzare: lasciare il pubblico libero di muoversi, di spostarsi tra le diverse situazioni, prendendosi quindi un po’ più di tempo. Partendo dalla stessa riflessione di Rilke sul tempo, sul vuoto, sull’aperto, ci piaceva che rimanesse questo grande spazio popolato da suoni come un interno sonoro. Ci interessava che la gente, oltre che vedere, potesse sentire parole e sonorità varie, registrate su mini-disc. Volevamo che questo frastuono si trasformasse in una melodia dello sfondo: riuscire a dare una melodia a un suono che non è di per sé melodico. In questo momento stiamo lavorando sulla commistione tra la musica classica (dal Te Deum a Monteverdi, che fa parte della direzione del nuovo lavoro, l’Orfeo) e il disturbo, l’interferenza elettronica.
Secondo voi oggi c’è una prevalenza della gestualità del corpo rispetto alla recitazione della parola? Credo che ci sia una centralità del corpo; ma è anche vero che non ci siamo mai posti come obiettivo il mettere in evidenza il corpo rispetto alla parola. Quando andiamo a realizzare uno spettacolo, pensiamo a quello che può essere il significante del lavoro che vogliamo realizzare. E da qui partono delle emergenze, che possono riguardare anche la fisicità, la corporeità. Noi crediamo in una nuova figura dell’attore: l’attore non è più collocato o visto come un semplice portatore di sé in senso verbale ma, con tutta la propria presenza, l’esserci, lo stare, dovrebbe riuscire a interpretare un punto nell’insieme dell’opera. Riprendendo il discorso della melodia dello sfondo, tutte le cose sono fondamentalmente parti di un tutto, in cui hanno la stessa valenza: attori, corpi, parole, scenografia, suoni. Certo, in lavori come Catrame c’è una prevalenza dell’azione fisica, che però è continuamente interrotta, è continuamente violentata da interventi esterni, anche vocali. In quel caso il movimento diventa partitura del testo. Ma ogni spettacolo è indipendente dall’altro.
Quanto c’è di cinematografico nei vostri spettacoli? A volte ho avuto l’impressione di penetrare voyeuristicamente uno schermo, assistere ad un film tridimensionale. Il punto di partenza del nostro lavoro è stato quello di voler tracciare, tramite dei quadri, delle immagini o dei fotogrammi cinematografici, una serie di segni che avessero la valenza del susseguirsi di enigmi. In Éntrange è particolarmente vivo questo rapporto: essendo noi dietro dei vetri a specchio, nel momento in cui ci facciamo vedere, lo spettatore può osservarci; ma quando il vetro diventa specchio, siamo noi ad osservare lui. E quindi emerge, da parte nostra, la visione dell’Essere Angelo: essere effettivamente al di là di un essere vivente, presente, e divenire trasparente, invisibile, una sorta di angelo custode. Forse è stata una delle azioni più divertenti perché normalmente non puoi mai controllare il pubblico; in questo caso invece ci rendevamo conto dei vari spostamenti, delle differenze tra i diversi gruppi di pubblico durante la giornata: quello che si muoveva molto più a gregge oppure l’anarchico assoluto che ti si piazzava davanti anche al buio cercando una continua relazione. È interessante come Rilke, nella seconda elegia, descriva questi angeli che, come loro visione, hanno degli specchi ("Voi, primi perfetti, viziati dalla Creazione, […] e a un tratto, uno per uno, specchi: la bellezza che da voi defluisce la riattingete nei vostri volti"). Sono in un certo senso autogenerati da se stessi: lo specchio diventa la presenza dell’angelo in sé. L’immagine dello specchio rimanda anche all’Orfeo cinematografico di Cocteau: nel film il passaggio dall’altra parte è rappresentato dallo specchio di un armadio, e l’angelo è un vetraio. Tra l’altro ho scoperto che Rilke poco prima di morire voleva tradurre proprio l’Orfeo di Cocteau.
E quindi avviene la rottura totale dello spazio teatrale classico: senza giungere ai casi estremi della Fura dels Baus, si compie un’interazione tra attori e pubblico. Sì, anche se noi non siamo mai così invasivi, così violenti. Questa interazione esiste, ma è sempre mediata dal fatto che ci poniamo distanti, sottoplexiglas o sottovetro, mentre la Fura entra, rompe, crea una fusione istantanea. La presenza di un filtro è stato un elemento importante. In Catrame è presente soprattutto il discorso cinematografico a cui accennavi prima. Tutto è nato da un forte riferimento a Ballard (La mostra delle atrocità), a Bacon e allo studio del movimento; abbiamo ricreato un grande schermo, suddiviso in porzioni di spazio segnati da numeri, in relazione proprio allo scorrere di un trancio di pellicola, singoli fotogrammi che si rincorrono. C’è una ricerca sulla bidimensionalità, a differenza di O.F. dove abbiamo mantenuto una struttura che acquisisse una profondità: lo spazio a forma di croce, legato ai cavalieri, come visione prospettica, dà la possibilità di avere più livelli di visione e di lettura.
Limitandone la fruibilità a un numero ridotto di spettatori, non si rischia che gli spettacoli assumano la connotazione di riti ristretti a pochi adepti? Noi in realtà siamo molto contrari a questo: nel caso di Éntrange è stata una scelta legata a esigenze tecniche. Anzi ci è dispiaciuto molto perché in genere amiamo avere una confronto con la massa, gli spettacoli di massa danno un vissuto in sé molto più collettivo e catartico. Probabilmente è interessante il rapporto che sorge dall’essere in pochi spettatori e quindi questo aspetto rituale, ma sinceramente non ci appartiene. Proprio per questo abbiamo voluto evitare ogni dimensione itinerante, abbiamo preferito lasciare il pubblico libero. Per Éntrange avremmo preferito, piuttosto che suddividere il lavoro in mezzore, lavorare per due ore continue in cui tu potevi arrivare, entrare, stare un quarto d’ora/dieci minuti, uscire, proprio come avviene in una galleria d’arte.
Prima di raggiungere il riconoscimento attuale, qual è stata l’evoluzione percorsa da voi e dalle altre compagnie dell’ultima ondata? Posso parlare della situazione dell’Emilia Romagna, che è quella che conosco meglio. Effettivamente è un fenomeno particolare: tutte noi, da Fanny a Clandestino, abbiamo iniziato più o meno nello stesso periodo in condizioni economiche e culturali veramente disastrose: autoproducendoci gli spettacoli, non avendo un circuito, inventandoci delle piccole rassegne in luoghi sperduti della Romagna. E siamo stati in un certo senso i pubblici reciproci, perché inizialmente non c’era ancora questo tipo di eco. Queste ristrettezze economiche ci hanno spinto a specializzarci un po’ in tutti i settori: dallo scenografo al fonico, ecc. Si è sempre più approfondito questo sapere comune, anche tramite scambi di mezzi… Pietro dei Clandestino faceva il tecnico per noi, abbiamo organizzato festival insieme, c’è stato proprio uno scambio di competenze. È chiaro che vedendo reciprocamente gli spettacoli ci sono state delle suggestioni reciproche. Ma, a livello drammaturgico, si sono prese strade veramente diverse… anche se si è mantenuta una similitudine a livello di modi di produzione, di utilizzo di certe tecnologie. Tutti quanti stiamo lavorando progressivamente con il computer per quello che riguarda il suono (ci siamo passati gli stessi software…!), ma a livello stilistico continua ad esserci una differenza di immaginario, di riferimento. Poi penso che le produzioni dell’Emilia Romagna siano molto diverse rispetto a quelle delle altre regioni, non per fare un discorso di priorità o meno: ci sono altri mondi, riferimenti diversi. In Romagna, col festival di Sant’Arcangelo, con Ravenna Teatro, con la presenza di compagnie storiche, abbiamo avuto la possibilità di vedere cose più particolari che in molte regioni non arrivano neanche. In realtà è sempre stata forte da parte nostra e anche da parte degli altri il desiderio di trovare un proprio linguaggio: continuamente si tende a rimandare la paternità delle nostre esperienze alla Raffaello Sanzio o alla Valdoca. È chiaro sono realtà importantissime e hanno aperto delle porte; sono state un esempio soprattutto per quanto riguarda il modo di lavorare: questa dedizione totale, questo impegno di studio e ricerca. Però noi cerchiamo di trovare una nostra propria identità.
Ma oggi i famosi finanziamenti statali sono arrivati o no? A noi non sono ancora arrivati! Abbiamo fatto domanda ministeriale, ci siamo messi in regola con l’ENPALS, poi al momento dello stanziamento è subentrato il problema del territorio: non potevano concentrare troppi fondi in Emilia-Romagna e così ci hanno lasciato fuori. Per noi è un grosso handicap perché, a parte i costi delle tecnologie e dei materiali, ci permetterebbero di crescere professionalmente, ci darebbero veramente la possibilità di essere dei lavoratori dello spettacolo, e non dei lavoratori in nero. Inoltre rafforzerebbero la nostra struttura che oggi si regge sul nulla: rapporti interpersonali di grande fiducia, di grande dedizione, ma di forte sacrificio economico. Ci sarebbe piaciuto poter invece, avendone le capacità, trasformarci in un qualcosa di più stabile. Anche perché continui ad essere guardato e valutato dalla critica alla stregua delle produzioni teatrali delle grandi compagnie… In realtà le condizioni di realizzazione ed elaborazione sono diversissime: una mole di impegno, di lavoro e di rischio non pagato e non riconosciuto dall’occhio esterno. Quest’anno siamo stati segnalati come finalisti per il Premio Ubu quale migliore scenografia. Però una nostra scenografia, senza nulla togliere, è veramente sudata… fatta da noi con i nostri mezzi e, per quanto bellissime possano essere, sapendo quali finanziamenti ci sono dietro le altre, ti scontri veramente contro un handicap, un limite. Già è un lavoro così difficile da poter crederci fino in fondo, perché rimane sempre volatile, in più se non sei nemmeno riconosciuto o non hai un supporto per poterlo fare con tranquillità… speriamo per il prossimo anno.

interview by federico mataloni.

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