Entrammo nella cappella di San Severo, nelle tenebre di quell’antro illuminato da tenui luci tremanti. Il Cristo Velato giaceva nel mezzo, adagiato sul sarcofago, con il volto chinato di lato, a chieder perdono dei nostri peccati. Alle pareti ci circondavano drappi di broccato porpora, cupi affreschi raffiguranti agiografici episodi, lunghi candelabri dorati lavorati minuziosamente. Altre statue candide, funeree sporgevano con una maestosità soffusa da nicchie in ombra. Eravamo soli. In un angolo, soltanto una signora leggeva curiosa l’incisione di una lapide. L’abbracciai da dietro, schiacciandole i seni con le mani aperte; le morsicai il collo dietro l’orecchio. Nascosti nel buio delle candele, abbandonati dal resto della città in quella madida stanza di morte, ci sussurravamo, aggrovigliati alle carni, voluttuose minacce, desideri inconfessabili. La pelle sinuosa accoglieva le mie carezze fin sotto i più inaccessibili segreti. Un gemito scappò dalle sue umide labbra e la custode si scostò un attimo dalle pagine di una rivista scandalistica per indirizzarci un’occhiata di rimprovero. Fuggimmo a respirare la pesante aria dei vicoli stretti e tortuosi. Ci baciammo a lungo sotto la statua del Nilo, che sbirciava severo come una vecchia da dietro un’imposta.