JUKE-BOX ALL’AMARENA 

Era solo il bar di un piccolo paese come tanti, che raggiungeva a malapena le 1500 anime.

Adagiato su un insignificante colle del basso Monferrato, il villaggio trascorreva inverni di mera sopravvivenza, ma era pronto a rifarsi al giungere della bella stagione.

Di questo fulgido periodo dell’anno adoravo i villeggianti, che venivano numerosi e si mischiavano  agli indigeni in perfetta simbiosi.

In particolare il sabato, a pranzo, la saletta del bar adibita a trattoria si affollava di alcuni personaggi amabili, per i quali il titolare faceva preparare lauti banchetti.

Era un trionfo di agnolotti di carne al ragù e lepri in salmì e talora, in occasioni particolari, di faraone in umido che illanguidivano tra i denti e il palato.

I commensali ammutolivano estasiati di fronte alle leccornie che venivano distribuite e le bocche smodate si preparavano a ingoiare ogni delizia, iniziando poi ad aprirsi e chiudersi secondo ritmi da rock and roll indiavolato.

I profumi dei cibi stordivano le narici e rilassavano i corpi, come un massaggio dei sensi e gli effluvi del Barbera e del Dolcetto giravano nell’aria e nelle teste e accarezzavano le guance dei presenti con tocco leggero.

Era in quei momenti di piacere e di verità che la vecchia sala inondata di luce pareva trasfigurarsi e diventava lo scenario di un banchetto trimalcionico, in cui figure togate mollemente adagiate su lettini spiluccavano grappoli d’uva tra una portata e l’altra e si lavavano le mani unte in bacinelle di legno.

Poi la voce schietta della Piera, la paciosa cuoca che sapeva creare quell’incanto , riportava tutti al presente.

Mentre i formaggi venivano serviti dal Carletto, il rubicondo padrone di casa, la malinconia dell’abbiocco incominciava a serpeggiare, ma bastava una robiola di Roccaverano di quelle squisite a dissipare la stanchezza delle pance satolle.

C’era ancora spazio per certi dolciumi tipo mousse alla crema o salami di cioccolato, una vera specialità locale, che coronavano una regale abbuffata.

A vederli così soddisfatti ed euforici ci si sentiva meglio e si poteva affrontare qualunque difficoltà con rinvigorito entusiasmo; sembravano angeli che si erano tolte le ali piumate e avevano scelto un paradiso terreno fatto di piatti gustosi e di cucina casereccia

Ma perdonatemi tutto questo divagare, anche se forse gli argomenti vi hanno messo un certo appetito.

Volete sapere quando veramente  salivo al settimo cielo e, come si usava dire nei 70, mi sballavo?

Semplice: alla sera nel giardino del nostro caro bar , dove si radunavano i ragazzi locali insieme ai villeggianti, giovani di età e formazione varie che amavano stare insieme e formavano un gruppo irripetibile.

Avevano volti schietti e canzonatori, portavano espadrillas ai piedi, e c’era tra loro una ragazza che era solita appoggiarmi addosso il suo ghiacciolo e se lo dimenticava lì,  sgocciolante.

Un’adorabile  fanciulla che scodinzolava dietro a un energumeno di nome Davide e aveva sguardi per me solo quando infilava la moneta da 50 lire per suonare "Patriots in arms" di Franco Battiato.

A questo punto, se il racconto non vi ha ancora narcotizzati, vi chiederete: ma cosa ci facevo io lì dentro, il juke-box umano?

A essere sinceri io ero e sono un juke-box a tutti gli effetti, e ne avrei di storie da raccontarvi.

Solo che forse non vi va di ascoltarle tutte, avrete sicuramente di meglio da fare.

Così, dicevo, avevo le attenzioni delle ragazze, anche le più carine, purché in cambio elargissi loro la mia musica.

E in questo non ho mai deluso nessuna; mai mi sono inceppato, mai ho avuto un minimo guasto tecnico.

Non che fossi così brutto, possedevo il mio aspetto più che passabile di juke-box panciuto in metallo luccicante, con eleganti placche blu e i titoli dei motivi su sfondo arancione con effetto 3D; ma , diciamo le cose come stanno, non era certo per questo motivo che le fanciulle si appoggiavano a me mollemente e, pensando a cosa volessero ascoltare,  indugiavano con le loro dita sottili regalandomi carezze indimenticabili.

Nel mio corpo convivevano in perfetta armonia dei fantastici 45 giri, che sapevo far suonare da par mio.

Ogni tanto qualcuno veniva cambiato per far spazio alle ultime uscite, ma esistevano degli autentici cavalli di battaglia che, con il passare degli anni, nessuno mi avrebbe mai levato: tra tutti vi potrei segnalare “Speedy Gonzales” cantato da  Pat Boone, un hit leggendario degli anni Sessanta.

Una volta mi sono persino innamorato, in fondo anche un oggetto di vetro e metallo ha la sua sensibilità.

Non era una come le altre, piuttosto una delle più belle del paese: capelli lisci castano chiari, un bell’ovale dalle guance imporporate, occhi azzurri perennemente incantati non si sapeva bene da cosa, gambe… si gambe dalla pelle dorata, carnose al punto giusto….

Scusate tanto ma il ricordo di Nicoletta, così si chiama, mi accende ancora , proprio  una macchina come me; quando si avvicinava e scorreva con il suo sguardo trasognato i titoli delle canzoni sentivo scricchiolare le mie giunture e anche se non avesse messo la moneta e scelto il brano sarei stato in grado di indovinare la sua richiesta del momento.

Se faceva ardere me, potete immaginarvi i maschi che le ronzavano intorno, ma lei non si era mai concessa ad alcuno, almeno secondo le versioni ufficiali.

Dopo pochi anni la sua famiglia non venne più in vacanza nel villaggio (non era abbastanza chic!) e della splendida Nicoletta, la sognatrice dalle guance imporporate, non si seppe più nulla.

Sempre più ragazzi avevano l’abitudine di dimenticarsi i loro ghiaccioli succulenti sopra di me e non mi piaceva per nulla quella sensazione di appiccicaticcio che mi lasciavano quando iniziavano a liquefarsi.

Finché un giorno uno di quei parallelepipedi congelati attaccati a uno stecco non perse un pezzettino, che furtivamente riuscì ad entrare nella cavità delle monete.

Era al gusto amarena e fu un’esperienza davvero memorabile.

Terminò la sua corsa assurda sul singolo dei Bee Gees “How deep is your love” e quando venne messo il giorno dopo, avendo ormai ben digerito tutto,  la melodia ne uscì fuori ancora più struggente.

Lo avevo assaporato per bene quel benedetto ghiacciolo all’amarena, fu il primo e l’unico, ma mi regalò momenti di estasi fisica e mi fece provare emozioni da essere umano.

Avrei voluto assaggiarne altri, magari al limone o alla fragola o al mandarino o al melone, ma dovetti accontentarmi.

In fondo, quando le finestre erano aperte, potevo godermi i sapori della cucina, che si espandevano nell’aria e mi avvolgevano come una calda trapunta; era tutto merito della  Piera, quella santa donna,  quella poetessa dei fornelli.

Che dire di certi risotti con fonduta innaffiata di scaglie di tartufo da far ammattire anche un pezzo di ferraglia come me!

E che pensare del vitello tonnato, una delle mie passioni; quanto mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi avesse sparato dentro un tocco di quella crema deliziosa, con quel profumo fresco che sapeva di cenette estive sotto il pergolato coperto dal glicine.

Di sicuro non potevo godere di quei manicaretti come gli umani, ma i profumi, gli aromi, gli effluvi mi arrivavano puntuali e ne assaporavo beato ogni particella.

Anche il Carletto si cimentava talora in cucina in occasioni del tutto speciali, e il suo piatto forte era senza ombra di dubbio il coniglio al vino bianco, le cui carni prelibate potevano essere scambiate per quelle di una lepre anche dal più esperto cultore di selvaggina e il fiero nettare che le irrorava proveniva da una rinomata cantina di Gavi.

Tra i tanti bei ricordi di quel periodo d’oro non mancano gli episodi oscuri.

Per il compleanno di Oreste, che festeggiava 20 anni, si era scelto il giardino del bar, che era stato addobbato con festoni e palloncini ed erano stati invitati tutti.

La sera dell’evento si era presentata una folla di gente mai vista lì dentro e ognuno aveva portato qualcosa; chi la fidanzata, chi lo spumante, chi il tiramisù.

Ma un maledetto, che non voglio nemmeno nominare, ebbe la sciagurata idea di portare un registratore di musicassette.

I ragazzi gradirono l’iniziativa, erano forse stufi di infilare monete da 50 lire o da 100 (per ascoltare tre brani) e sorbirsi il solito repertorio.

Lo compresi benissimo, inoltre era qualche mese che il Carletto non si era più preso la briga di rinnovarlo, ma passai davvero la più brutta serata della mia vita.

Nella confusione della festa, tra l’allegria pompata dai litri di vino versati e in mezzo all’agitarsi dei corpi sudati, io me ne stavo lì , nel mio solito rassicurante angolino, ma del tutto inutilizzato e dimenticato.

Ero nel bel mezzo di un baccanale, ma era come se mi trovassi in cima a una montagna innevata percossa da venti gelidi e tempestosi; era fine estate, un settembre ancora torrido, ma io sentivo solo il gelo dell’indifferenza.

Poi successe un piccolo miracolo: il figlio di un professore di Brescia, un biondino con i capelli a caschetto dall’aria timida che si era avventurato nella bolgia, mi fissò perplesso.

Improvvisamente la speranza tornò, qualcuno ancora si ricordava della mia esistenza, e quando si avvicinò e digitò D6, sicuramente scelto a caso, ero talmente commosso che feci partire la canzone senza bisogno di moneta (era la prima volta che mi capitava, dopo anni di servizio, e mai più  sarebbe successo).

Se non sbaglio si trattava degli Status Quo in “Whatever you want”, un pezzo bello tirato che attirò subito l’attenzione degli altri, i quali mollarono il registratore gracchiante e si lanciarono sulla ghiaietta a fare salti ed evoluzioni.

Alla fine la serata prese una piega favorevole, ma vi assicuro che in quei lunghi attimi di solitudine i pensieri più cupi si erano affacciati alla mia mente; ero arrivato a pensare che il giorno dopo mi avrebbero gettato nella discarica insieme a vecchie lavatrici arrugginite, televisori dal tubo catodico esausto e scarponi bucati, con giganteschi calabroni a martoriarmi.

Per quella volta la scampai, ma gli anni passarono inesorabilmente e arrivarono gli Ottanta.

Ci furono ancora momenti di felicità e scherzi indimenticabili (come quando Pietro, ubriaco fradicio, mi mise su un asse a rotelle e mi trascinò in un epico giro del  paese e Il Carletto lo inseguì con un bastone fino a casa cingendolo d’assedio), ma ormai si delineava la via del declino,  imboccata in maniera irreversibile.

Il Carletto decise di vendere il suo bar a un alessandrino che voleva aprirvi una pizzeria.

Allestì una specie di cena d’addio nella vecchia saletta, chiamando un suo amico cuoco che gestiva una delle locande più rinomate della zona.

Di quel banchetto assaporai ancora una volta gli odori, ma non vidi nulla poiché ero stato spostato dal giardino in una saletta interna.

Con l’immaginazione e l’olfatto potrei giurare che furono servite, con una presentazione impeccabile da alta cucina, le seguenti portate: affettati con cipolline sott’olio, pansotti al sugo di noci (una specialità ligure), ai quali neanche Siddharta in piena illuminazione avrebbe resistito, e anatra all’arancia, che faceva venire voglia al più compassato dei commensali di tuffarvici dentro e rimanervi in beata contemplazione del creato.

A concludere una meringa inaudita, non con la solita parvenza di calce e il gusto del polistirolo, ma una montagna dorata coperta da una nuvoletta di panna, un Olimpo incantato popolato da divinità ghiottone.

Il resto è mera cronaca: una settimana dopo Carletto morì (ancora felice per quel pasto solenne), il nuovo proprietario avviò la pizzeria, facilitato dal fatto che nella saletta vi era un vecchio forno a mattoni.

Gli affari non gli andarono male, era un uomo in gamba, ma resistette solo pochi anni e da allora si succedettero sempre nuovi personaggi (uno di loro, un tipo ben viscido, cercò di aprirvi un night, con risultati grotteschi).

Un collezionista di Lugano  mi  salvò da demolizione sicura e mi portò nella sua villa sul lago, una residenza storica con un parco enorme.

Non ho da lamentarmi: qualche manicaretto prelibato ogni tanto mi arriva all’olfatto, piatti di buona cucina internazionale, ma nessuno qui addenta ghiaccioli all’amarena e ne fa scivolare un pezzetto dentro le mie giunture.

A volte mi vengono in mente i ragazzi del paesino nel Basso Monferrato, la loro schiettezza e spontaneità, e quel burbero generoso del Carletto.

Ho la mia età e a volte penso a quando non ci sarò più: credo nella reincarnazione e, chissà, nella prossima vita potrei essere anch’io un ragazzo, un gagliardo giovane che farà innamorare Nicoletta e vivrà felice con lei tutta la vita.

Mi sa però che aveva ragione Pietro, il re degli scherzi e delle beffe: non facciamoci troppe illusioni, che si rischia sempre di prenderlo in quel posto.

Forse lui lo diceva in modo anche più volgare, ma mi faceva pensare che bisogna pur provarci ad esser felici, senza mai smettere di godersi il più possibile quello che passa il convento.

Anche perché nella mia prossima vita potrei diventare un lettore portatile cd, più volgarmente detto walkman, e mi toccherebbe passare il tempo a soffocare in uno zainetto o in una borsa.

Con un padrone da seguire sempre, io che avevo tanti amici ma non appartenevo a nessuno.

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