FINE DELLA CORSA

Così aveva pensato, mentre la mannaia luccicante stava scendendo sul suo capo. Ma all’ultimo istante, a un solo centimetro dalla pelle, si era frantumata in tanti pezzetti che, a terra, erano diventati disgustose blatte violacee. Le sonore grasse risate del boia lo avevano svegliato e si erano trasformate nel rumore del traffico impazzito giù nel viale alberato, che dalla strada si arrampicava verso la finestra a triplo vetro, come se volesse spalancarla e fare irruzione nella camera disadorna.

Si trascinò meccanicamente fino al bagno e non seppe far di meglio che ciondolarvi e  gettarsi sulla fronte dell’acqua tiepida, che non lo aiutò a riprendersi del tutto.  Con la coda dell’occhio sbirciò attraverso le tende della finestra una fetta di cielo e una porzione di città: tutto quello che riuscì a intravedere erano l’azzurro in cui galleggiavano nuvole sfilacciate e i tetti imbronciati di  un’anonima semiperiferia. La sinfonia futurista del traffico sottostante non conosceva sosta, e  si sentiva un coro di clacson che intonava il Dies Irae, accompagnato soavemente dal crescendo rossiniano di una trivella: un vero trionfo di musica sperimentale contemporanea. Aprì la finestra per ripigliarsi del tutto e fu investito da un soffio gelido e pungente, solo un poco maleodorante e grigiastro, che accolse stoicamente.

Era giunto il momento di lasciare il suo appartamento, di scendere nella via per affrontare a testa alta la sua prima giornata da disoccupato. Tutti gli ascensori erano occupati e fece le scale, incontrando un cane lupo minaccioso che lui salutò con un timido cenno; mentre affrontava gli ultimi gradini, in testa cominciò a risuonargli un motivetto leggero e ironico, un pezzo dei Pink Floyd che aveva furoreggiato in un’estate lontana degli anni 70.

Decise che almeno per quella mattina non si sarebbe occupato di trovarsi un nuovo lavoro, non avrebbe letto le inserzioni , non avrebbe messo piede in alcuna agenzia interinale o ufficio di collocamento, ma semplicemente si sarebbe goduto una libertà assoluta. Si sentiva come un marinaio sbarcato in un porto straniero alla ricerca di avventure, di risse e di una bettola per ubriacarsi.  Ma non era proprio il luogo adatto per soddisfare i suoi bisogni; così continuò a camminare assorto nel suo divagante fantasticare, e la visione delle strade attraversate da corpi e oggetti che si incrociavano e si sfioravano gli apparve come un frenetico sistema solare, brulicante di pianeti e soli e satelliti in movimento costante, mentre il motivetto dei Pink Floyd non mollava un istante l’orecchio dell’immaginazione. La sua mente si rappresentava  possibili esistenze future; in una si vedeva fotoreporter in un paese africano, dilaniato da una guerra tribale, a soccorrere un ragazzino ferito da una granata e a trascinarlo al riparo, tra  colpi di fucile che lo sfioravano; in un’altra era uno sceneggiatore di film indipendenti che veniva giudicato dalla stampa specializzata il nuovo grande talento dell’anno, ma faticava a rimediare un buon contratto. Stava debuttando al Teatro Studio nel Gabbiano di Cecov, interpretando il giovane studente Kostja, quando si accorse di essere a un solo isolato da casa.  La mattinata invernale non era affatto gelida, e un sole tiepido proiettava una luce consolante, ma  non aveva più alcuna voglia di continuare a trascinarsi tra i suoi simili.

Rincasò, si sedette sul divano e accese il televisore.

I programmi di tarda mattinata non erano particolarmente allettanti e in ogni caso non era sua intenzione concentrarsi su nulla, in quanto un senso di spossatezza si faceva strada, inarrestabile, nel suo spirito incupito. Rimase inebetito a fissare, con un’espressione vacua, alcuni tizi pallidi e incravattati seduti intorno a un tavolo trasparente di plexigrass, che probabilmente discutevano di medicina omeopatica o forse di procedura penale applicata ai minori, ma lui non poteva saperlo, dal momento che si era scelto un commento sonoro personale. Aveva infilato nel piatto del lettore cd un dischetto arancione masterizzato, che era entrato con uno scatto elegante e subito diffondeva nell’atmosfera malinconica del salotto le note che lo avevano seguito per  tutta l’uscita mattutina. La visione delle bocche dei  professori che si agitavano senza sosta sullo schermo, come pesciolini rossi in un acquario catodico, si fondeva con i coretti  di “See Emily play” e l’effetto, in condizioni normali, sarebbe stato spassoso; ma ora la sua mente stava precipitando nei recessi più tetri dell’anima, dentro un vero incubo psichedelico. Avrebbe potuto fare qualsiasi sciocchezza, tipo aprire la finestra del terrazzino e spiccare il volo verso l’ignoto o mettere la testa nel forno a cuocere e poi servirla su un piatto di portata con patate arrosto, ma fu salvato dal telefono. Alle cupe note di basso che introducevano “One of these days” si sovrapponeva con ritmicità lo squillare dell’apparecchio e il pezzo diventava qualcosa di totalmente diverso, qualcosa che sprigionava dalla propria disarmonia un’allegria sinistra.  Chi mai poteva cercarlo, facendo emettere all’apparecchio  quel trillo esasperato? Assaporò quei secondi: non gli accadeva ormai da parecchio tempo di essere chiamato da qualcuno. All’ultimo squillo buono, prima che scattasse implacabile la segreteria telefonica, proprio mentre il mostro della canzone bussava con violenza alla porta e squarciava l’etere con una possente voce infernale, afferrò il ricevitore.

“Come butta, Tommy?” lo aggredì una voce squillante ed euforica “Ma che fine hai fatto? Una volta eri tu a farti sentire per propormi tante feste…”.

Stava cercando di indovinare quali richieste stesse per fargli l’amico , che non si era presentato, ma aveva prontamente riconosciuto come quel rompiballe  di Giacomo, il Giacomo che anni fa lo aveva accompagnato in spericolate imprese sugli sci e che non ricordava affatto di aver invitato a tutte quelle feste. Ma invece di una richiesta arrivò una proposta , da colui che non era mai stato tra i suoi amici migliori e tanto meno tra i più interessanti. Venne a sapere che Sofia, la cara dolce Sofia, aveva deciso di organizzare un supermega party (parole testuali) a cui invitare tutte le persone che per lei contavano qualcosa. Mantenne un atteggiamento di algido distacco, ma in cuor suo fibrillava per l’opportunità che gli si stava offrendo di vedere qualcuno. C’era solo un piccolo particolare: quel nome di donna così affascinante non gli diceva nulla, gli pareva che il reame incantato delle Sofie di tutta la terra non gli avesse mai concesso i suoi preziosi favori; Giacomo percepì la sua sorpresa e gliela introdusse come una ragazza meravigliosa che voleva assolutamente presentargli. Il suo cinismo gli suggerì che il buon Giacomo lo stava reclutando per fare numero, perché sospettava fossero ben poche le persone che contavano nella vita di questa donna misteriosa e probabilmente noiosa.

“Va bene ci sarò” disse, arrendendosi senza combattere.

“Ci vediamo sabato in via Borgogna 15, citofono 23, dalle 21 in poi. Non provare a paccarmi, ci devi essere”  concluse Giacomo con tono perentorio.

Cinque giorni dopo, alle 21.30 in punto, Tommaso sostava stordito in pieno centro storico davanti a un sontuoso portone di legno, che spiccava al centro di un palazzo signorile, con in mano una bottiglia di Cabernet. Dopo una lunga riflessione sui fighetti allucinanti che dovevano esserci la dentro e una breve sessione di training autogeno raccolse tutta la forza d’animo che ancora possedeva e suonò, al numero 23. Una bella vocina melodiosa risuonò nella notte invernale senza luna e lo spinse a entrare e a salire su un vecchio ascensore, il cui storico abitacolo di legno doveva aver avuto un cassettone su cui sedersi. La musica ossessiva che veniva dal quinto piano lo riportò bruscamente a un’era più recente, e scese sul pianerottolo, incominciando a perdere entusiasmo per la serata. La porta era spalancata e si intrufolò dentro senza che alcun invitato lo filasse; gli ospiti, impegnati in oziose conversazioni, sembravano occupare ogni angolo dell’appartamento. Non erano neanche tanto fighetti, ma semplicemente squallidi.

 Stava già incominciando a sentirsi di troppo ed era pronto a girare i tacchi, quando fu investito dal ciclone Giacomo. L’amico gli afferrò la mano energicamente, trascinandolo lungo il corridoio, e si poteva ragionevolmente supporre che lo volesse sequestrare per ricavarne un vantaggioso riscatto o, nella peggiore delle ipotesi, inchiappettarselo. Gli furono presentati parecchi sconosciuti e strinse tante mani, dimenticandosi subito i volti e i nomi dei loro proprietari. Ebbe anche l’onore immenso di  conoscere la dolce Sofia, ma la loro esaltante relazione si esaurì in uno scambio di sguardi  annoiati.

Così trascorse quella serata poco memorabile.

Il mattino dopo si alzò con un desiderio bizzarro, che a lui parve del tutto naturale.

Verso mezzogiorno imboccò le scale della fermata della metropolitana di Porta Romana, linea gialla, salì in vettura e incomincio un tour sotterraneo. Il vagone mezzo vuoto arrivò a Zara, il capolinea, ma non lui uscì e ricominciò la corsa nella direzione opposta. Andò avanti così a lungo, percorrendo anche la linea rossa e quella verde, il tratti extraurbano fino a Sesto F.S. e quello fino a Gessate. Avrebbe voluto essere a Londra e poter girare per settimane le sue innumerevoli linee, poiché quell’esperienza lo appagava e lo rilassava. Continuò a vagare per ore senza meta nelle viscere del capoluogo lombardo, senza muovere un dito. osservando le persone che salivano e scendevano. Si limitava a immaginare le loro esistenze e il loro grado di felicità, in base all‘espressione dei loro volti e al modo in cui erano abbigliati.

Arrivò a san Donato, verso le otto di sera. Una ragazza alta ed eterea, che indossava la divisa blu dell’Atm su cui zampillava una fontana bionda di lunghi capelli ricci, lo invitò a uscire. “E’ l’ultima fermata, deve scendere”, gli disse con la sua voce ipnotica.

Era indubbiamente il più affascinante addetto dei trasporti pubblici che avesse mai incontrato, pensò restando sul sedile giallo. “Mi ha udito, si sente bene?”, lo incalzo lei.

Un’orchestrina klezmer incominciò a esibirsi dal vivo nel suo cervello, attaccando un motivetto indiavolato, da far venire una voglia irrefrenabile di afferrare qualcuno e mettersi a ballare nel vagone vuoto. “Balleresti con me ?” bisbigliò Tommaso, evidentemente provato dal giro pomeridiano. “Mi faccia vedere il biglietto” gli rispose seccata. Lui glielo porse con un sorriso così disarmante che spinse l’efficiente lavoratrice dell’Azienda Trasporti Municipale a dargli del tu.

“Piacere, sono Tommaso Morelli ”, si presentò con inaspettata sfacciataggine. “Questo biglietto è stato timbrato  una sola volta e otto ore fa, ti devi essere girato tutte le linee, come un topo da metrò.  Dovrei farti una bella multa, ma immagino che non è un periodo molto allegro per te.  A proposito, io sono Livia” e gli tese una lunga mano nervosa.  Lei sembrò capirlo al volo, e questo lo commosse. Tommaso si fece forza e le disse, sconfiggendo il proprio pudore: “Mi piacerebbe rivederti”. Livia ebbe una breve esitazione e quindi rispose: “Sei sull’elenco, Tommaso Morelli? Adesso esci di qua e torna all’aria aperta.” Lui annuì soddisfatto, ma non tornò subito a rivedere il cielo invernale, passò sull’altra banchina per tornare in Piazzale Lodi, che era un po’ più vicino a casa.

Nei giorni successivi vagabondò per la città a piedi, in bici, su tram, autobus, ma non più in metropolitana.  Andò a mostre fotografiche, presentazioni di libri, inaugurazioni di locali, qualsiasi avvenimento fosse gratuito, parlò con gente di cui non gli importava nulla, ma non smise mai di pensare a Livia.

Il pomeriggio di giovedì, colto da un inebriante presentimento, restò a casa. Lei lo chiamò e fissarono un appuntamento. La temperatura di quel mite gennaio si abbassò, ma loro continuarono a vedersi di prima mattina, nei giorni in cui Livia non era di turno, facendo lunghe passeggiate e discutendo  di qualsiasi argomento.

Finché Tommaso non si ritrovò in un mattino piovoso con due biglietti ferroviari in mano a prendere un treno tutto solo, destinazione Venezia,. Si incamminò dalla stazione di Santa Lucia senza una meta, arrivò nel quartiere dell’università ed entrò in un baccaro, che aveva come insegna un gallo con un boccale nella zampa. Il gestore, un veneziano burbero e barbuto, gli spillò da una bottiglione dell’ottimo prosecco, servendolo in un panciuto calice pieno fino all’orlo a prezzo modico. Dopo tre bicchierate di gusto riordinò le idee. D’accordo, Livia non si era presentata all’appuntamento In Stazione Centrale, dovevano partire insieme ed era stata proprio lei a comperare i biglietti, senza neanche chiedergli se gli andasse, ma pareva avergli letto nel pensiero. Perché lui covava da tanto tempo un desiderio inconfessato di tornare nella città del leone alato, vi era stato con i suoi genitori tanti anni prima d’estate, incolonnato tra plotoni di turisti, finché non era fuggito per le calli, inseguito da suo padre; era arrivato fino a Campo San Polo, scoprendo un gioiello di quiete indolente, lontano anni luce dalle  rotte del turismo all’ingrosso. Non si era stupito di come Livia avesse indovinato una sua aspirazione inconscia, tra loro  si era subito stabilita un’intesa assoluta, come se si conoscessero da sempre.  Si era presentata a una loro passeggiata con in mano i due pezzi di carta rigida con stampato sopra il viaggio promettente e lui, senza tradire emozioni, se li era messi in tasca, nominandosi sui due piedi capocomitiva. Non si erano detti nulla a proposito, era tutto logico e naturale, avevano solo fissato di trovarsi in stazione davanti al binario del treno interregionale, 20 minuti prima della partenza. Tommaso si era portato uno zainetto con qualche cambio, un paio di guanti scamosciati e un berretto da baseball blu; era sottinteso che lei si era preso qualche giorno di ferie arretrate e che avrebbero cercato una qualsiasi sistemazione per la notte.

Adesso stava sorseggiando con voluttà lo squisito vinello bianco, mentre un vecchio registratore diffondeva una possente voce tenorile che intonava l’aria dolente di un’opera lirica.  L’aveva già sentita da qualche parte, ma non ricordava il titolo e l’autore.

“Xe Verdi, il Trovatore, dai!!” esplose il burbero oste alla domanda che gli pose Tommaso.

“Ah si, è vero” cercò di replicare goffamente, ma era chiara la sua ignoranza in materia di musica classica. Il gestore barbuto si mise a canticchiare l’aria, mentre gli altri avventori presenti ridevano, brindavano, urlavano e ridevano ancora, e il più scatenato di tutti era un prete paonazzo, dai modi spicci e dalla risata scoppiettante. A Tommaso non dispiaceva affatto l’atmosfera conviviale del locale, e tanto meno gli era sgradito l’arredamento del locale: il luccicante legno chiaro che copriva le pareti e il soffitto come un caldo guscio di noce, le illustrazioni di Burano con le casette coloratissime, appese insieme a vecchi manifesti che pubblicizzavano sontuosi vini del Veneto. In un angolo poi spiccava un accostamento bizzarro, un ossimoro in immagini che era un’autentica meraviglia; un’immaginetta di Padre Pio con a fianco il poster di una sensuale donna nuda a  cosce spalancate. Quest’ultimo particolare non impediva al baccaro di risultare elegante e semplice insieme, con un sentimento di verità che traspirava dalle pareti e dai volti dei presenti, tanto lontano dai posti che aveva lasciato e tanto gradito al marinaio in cerca di avventure che talora credeva di essere.

Improvvisamente sentì il bisogno di uscire all’aria aperta. Pagò in fretta, lasciando sul bancone i pochi centesimi di resto, e si precipitò nel campiello, inghiottito dalla nebbia.

Una nebbia tanto densa che da un momento all’altro si aspettava di veder apparire i Kiss, ciondolanti su zeppe altissime e imbrattati di trucco infernale, ma in mezzo a quel vapore quasi solido si sentiva magnificamente, si ritrovava e gli pareva che Livia fosse li, a pochi passi da lui, sorridente e con lo sguardo liquido. Non si era risentito per il bidone che gli aveva tirato, anzi la sentiva più vicina che mai, e nello stesso tempo non le dava grande importanza, poiché stava benissimo anche da solo. Il sacerdote uscì, fortemente alticcio, e lo salutò con una vigorosa pacca sulle spalle. Tommaso gli auguro buona fortuna e, viste le condizioni, gli consigliò di stare attento a non finire in un canale, in fondo era un buon prete. Poi, quando i passi dell’ecclesiastico sfumarono nel vuoto, incominciò a correre verso la stazione, tagliando a fette la nebbia.

Prese il primo treno, utilizzando l’altro biglietto, e non smise di correre finché non arrivò a casa. Si butto sul letto, restando vestito, e sognò il patibolo, solo che non c’era alcuna mannaia luccicante e il boia se ne era andato, con uno sguardo di umana comprensione;  nell’aria si era diffusa una musica mai sentita prima, come se i Pink Floyd stessero suonando il Trovatore diretti da Toscanini.  Dal fondo della piazza ormai svuotata vide avvicinarsi pigramente una hostess del metro bionda, dal viso illuminato. Lo raggiunse sul patibolo e gli disse, con ammirazione : “Sei unico!”.

Tommaso la afferrò con rabbia e le diede un bacio violento.

Si risvegliò inquieto,  accennò a vestirsi, ma si rese conto subito che non si era mai spogliato. Era una notte luminosa e le strade erano deserte, come se ci fosse stato un attacco chimico; dovevano essere le 4 o le 5. Non era mai stato a casa di Livia, si erano visti sempre e soltanto in luoghi pubblici, ma sapeva l’indirizzo. Davanti al portone si rese conto, con disappunto, di non conoscere il cognome della ragazza, ma era aperto. Fece le scale a due a due e arrivò su uno stretto pianerottolo; la porta di fronte era socchiusa. Entrò senza esitare, affidandosi all’istinto.

E l’istinto non lo tradì: seduta a gambe divaricate su una sedia di plastica, con lo sguardo sognante fisso sull’ingresso, c’era Livia, che sembrava aspettarlo.

Lei lo condusse per mano in camera da letto, accese il mappamondo che spiccava su un tavolino di  vetro, spense le altre luci.

La stanza era diventata un luogo incantato e in qualche angolo stava bruciando dell’incenso al patchouli.

“Piaciuta la gita in laguna?”

“Non c’è male, grazie, il vino poi era buonissimo.”

“Scusami se non sono venuta, volevo metterti alla prova. Ora sono disposta a mollare tutto e scappare con te. Scegli tu il posto da cui ricominciare.”

Tommaso stava per rispondere con entusiasmo, era pronto a girare il mondo e vivere mille avventure, con al suo fianco la donna che aveva trasformato gli incubi in sogni, ma improvvisamente il mappamondo si spense.

Si sentì strattonare senza tanti complimenti e aprì gli occhi nel vagone con i sedili gialli.  “Fine della corsa”, gli disse bruscamente l’addetto dei trasporti pubblici più odioso che avesse mai incontrato. Di fronte a lui c’era Livia in costume da bagno, sdraiata su una spiaggia dei tropici nella banale  pubblicità di un Tour Operator.

Ma non se la prese più di tanto.  Si alzò con un braccio indolenzito, sotto lo sguardo torvo dell’uomo in blu, e si fece una bella risata di gusto .

Tornato in superficie s’incamminò sotto il cielo stellato e, mentre il mondo gli scorreva a fianco, non si sentì più solo.

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