Federico Mataloni

Biennale Market

 

Me lo immagino il presidente Berlusconi mano nella mano con la moglie Veronica passeggiare per i Giardini con l'aria incredula vedendo la prima Biennale del suo governo così come l'ha determinata il presidente Bernabè, scegliendo un direttore che ha per gli artisti la stessa considerazione che hanno gli astemi per il vino, un misto di diffidenza e di insoddisfazione.        (Vittorio Sgarbi)

Forse è ingiusto dire che questa edizione appare un po' soporifera, perché se uno proprio pensa che l'arte debba essere un brivido sporcaccione o horror, non mancano neppure adesso alcune simpatiche opere. C'è un pene bianco vistoso che si erge da un corpo nero; c'è un gruppo di spettatori in piedi che battono le mani a coppie di giovani ambosessi attorcigliati uno all'altro e in piedi c'è un negrone che penetra una magrolina bianca...                   (Natalia Aspesi)

Il problema maggiore era come riuscire ad accaparrarsi un invito per il party di Miuccia Prada o come fare a trovare un tavolo libero nel ristorante in cui cenavano Damien Hirst e Charles Saatchi.         (Deyan Sudijc - The Observer)

più dubbi che perplessità...

Si sa che la Biennale di Venezia, come e più di altre grandi rassegne d'arte contemporanea, potrebbe essere paragonata ad un enorme Iperstore, dove i passanti gettano occhiate veloci agli scaffali e si soffermano solo dove colgono l'offerta… Ma l'edizione 2003, più che ad un'imponente città mercato, fa tristemente pensare ad un misero discount. Solitamente non sono pretenzioso quando mi approccio a queste manifestazioni, conscio che la quantità è spesso in contraddizione con la qualità. Ma la percentuale di materiale guardabile è stato decisamente in ribasso. Considero arte ciò che muove qualcosa, che sia essa passione o disgusto, ammirazione per la tecnica e la ricerca o distacco totale. Ciò che ho visto quest'anno è un'accozzaglia di nulla, e per di più noioso. Drammatica è la sensazione di camminare per le interminabili Corderie o attraversare ipertrofici padiglioni e accorgersi che sono vuoti, che si viene mossi più dall'istinto di andare oltre che dalla curiosità o dall'interesse per ciò che ti circonda.
Primo responsabile e oggetto di non poche critiche è giustamente il curatore, Francesco Bonami - insieme al suo team, proprio per le scelte qualitative infelici.
Questa sensazione infelice emerge devastante dentro i saloni dell'Arsenale. Qui i curatori hanno voluto ricreare una sorta di casbah degli stati extra-occidentali (Islam, Africa, Estremo Oriente) e già leggendo i titoli delle sezioni (Zona d'Urgenza, La Struttura della Crisi, Smottamenti) si evocano l'instabilità delle forme e il sopravvivere di relitti dopo una catastrofe. Questa confusione emerge soprattutto dall'allestimento delle installazioni. E meno male che il sottotitolo di questa edizione recita La Dittatura dello Spettatore… In questi cunicoli-anfratti, che ricordano un affollato quartiere-bordello di Bangkok, ci si perde dentro smunti peep-show completamente prosciugati di emozioni (Zona d'Urgenza) o in baraccopoli post-atomiche (Stazione Utopia). Rara eccezione sono tre opere, legate tra loro da riferimenti sessuali, critici per la giovane cinese Yang Yong, impunemente espliciti per l'algerino Adel Adbessemed e ludico-psichedelici per il gruppo giapponese Kyupi Kyupi.
Ai Giardini va un po' meglio e almeno si riesce a non correre… Nel padiglione Italia si incontrano alcuni mostri sacri. Matthew Barney ci propone dei tavoli-teche in plexiglas contenenti cornicette organiche con secrezioni di muffa verdognola, che comunque appaiono sotto tono rispetto alle esondanti immagini dei Cremaster. Damien Hirst prosegue invece il suo percorso di catalogazione farmaceutica - Tutti i misteri, un tempo interpretati dalla religione, oggi sono sintomi che si curano con farmaci. Dopo aver aperto The Pharmacy, il locale più trendy di Notting Hill, eccolo infatti intrippato in una ricerca artistica legata alla riproduzione di medicine virtuali (memorabili le pubblicità di cibi prettamente britannici confezionati in packaging da supposte o aspirine). In questa sede ci impattiamo in una parete porta-pastiglie (18.000, tutte fatte a mano in gesso e tutte diverse tra loro). L'osservatore viene colto da un'iniziale perdita di orientamento di fronte all'imponenza e alla minuziosità dell'opera, seguita da una morbosa attrazione a tendere la mano verso una pasticca-extasy.
Forse timorosi di aver concesso veramente poco al palato dello spettatore-dittatore si è pensato bene di inaugurare quest'anno una sezione completamente dedicata alla pittura: Painting al Museo Correr. Qui trovano posto i pittori che hanno calcato la Biennale dal '63 (data in cui appaiono i primi lavori pop di Warhol e Rauschenberg) ad oggi. Attraversiamo quindi la storia dell'arte degli ultimi 40 anni attraverso Bacon, Lichtenstein, Twombly, Richter, Guttuso, Auerbach, Basquiat, Castellani, Fontana fino alle ultime generazioni: Gary Hume, Damien Hirst, Margherita Manzelli, Takashi Murakami (quello delle coloratissime borse Louis Vuitton e delle statuette erotiche manga con getti di sperma e latte). Una collettiva alquanto accozzagliata, dove le opere si susseguono in ordine scrupolosamente cronologico senza una vera appartenenza omogenea. Gli accostamenti nelle stesse sale fanno accapponare: Guttuso-Castellani? De Dominicis-Hume? Fontana-Warhol?
Tra i giovani emerge, soprattutto per stile, Glenn Brown (a cui è dedicata una sala anche al Padiglione Italia). Seguace di Auerbach (che ritrasse in un quadro nella storica mostra Sensation a Londra), si impossessa della materia e plasma busti utilizzando la tempera ad olio. I suoi ritratti (dame settecentesche e barboni alla deriva) sembrano uscire dalla tela, pulsanti, avvinghiati da serpenti. La carne, segnata da ombre e colori eccessivi, si trasfigura in cellule tridimensionali che non appartengono più all'umano.
Tornando ai Giardini, i padiglioni che più hanno lasciato il segno sono stati quello israeliano e soprattutto quello australiano. In entrambi le protagoniste sono due donne che nel loro lavoro citano e si ispirano alla genetica (a livello metaforico-sperimentale la prima, con gemmazioni mutanti la seconda). Israele ospita Michal Rovner, videoartista newyorkese d'adozione. Nel susseguirsi delle piccole sale del padiglione, ci inoltriamo in un laboratorio asettico e buio dove l'artista sta sezionando il comportamento umano nella più feroce tra le sue attività sociali, quella militare. Avvicinandoci ai tavoli possiamo infatti osservare, dentro vetrini da biologo, non microscopici germi, ma video di minuscoli soldatini che si muovono in file serrate o in ordine sparso. Vediamo attoniti omini in forma di X (cromosoma femminile?), girotondi di lunghi filamenti o puntini sparsi velocizzati come batteri impazziti. L'Australia ospita invece Patricia Piccinini

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